Napolitano e la Terza Repubblica
La rielezione del Capo dello Stato apre di fatto una fase di mutamento istituzionale
Il botto c’è stato, dirompente per il Pd. Ma è tutta la politica italiana che è bloccata. La prova della situazione di eccezionalità-drammaticità ci viene dall’elezione a presidente della Repubblica di Giorgio Napolitano. Una riconferma, non auspicata dall’interessato, che risolve un’emergenza della Repubblica, ma che non può essere vista come una parentesi per poi ritornare al solito teatrino della politica. Niente più è come prima. Con la rielezione di Napolitano siamo passati alla Terza Repubblica. Bisognerà voltare pagina con un “governo di scopo” che proceda senza tentennamenti a riformare lo Stato ed a rilanciare l’economia. La strada è obbligata e già nei prossimi giorni il capo dello Stato dovrà indicare il presidente del Consiglio incaricato. Pd, Pdl, Scelta Civica, Lega sono gli azionisti di riferimento della svolta che c’è stata e che deve continuare con la nascita di un esecutivo politico in cui questi partiti si dovranno impegnare in prima persona, con i loro migliori uomini. Serve che l’opinione pubblica tocchi con mano, capisca bene, che non è il solito ritornello suonato da pifferai magici che parlano di bene comune, d’interesse nazionale, ma poi conoscono e praticano solo i loro piccoli interessi di bottega.
Il canovaccio del programma di governo potrebbe basarsi sui punti condivisi formulati dai saggi-facilitatori voluti da Giorgio Napolitano. Ed il presidente del Consiglio potrebbe essere indicato dal Pd. Certo, il Partito democratico non naviga in acque calme. Il tsunami dei franchi tiratori ha fatto saltare il quadro dirigente del partito. Bisognerà costruirne un altro facendo finalmente chiarezza sulle connotazioni che il partito dovrà avere. Ma, nel frattempo, proprio perché le elezioni sono state vinte anche se di stretta misura, il Pd non può rinunciare ad esprimere il nome di un presidente. Questo sarà il primo serio scoglio che i democratici dovranno affrontare e risolvere.
La “fusione a freddo” delle anime del Partito democratico alla lunga non ha retto. Le contraddizioni sono scoppiate. Il gruppo dirigente ondivago è saltato quando ha tentato di conciliare concezioni, visioni, obiettivi diversi. E’ capitato in un momento delicatissimo per il Paese, nella circostanza in cui i riflettori erano puntati sulla scelta del candidato alla presidenza della Repubblica. Dal cilindro è uscito il nome “condiviso” (sic) di Franco Marini. Quel nome era il preludio ad un possibile accordo di governo tra Pd, Pdl, Lega, Scelta civica. Marini non è riuscito ad essere eletto alla prima votazione con i 521 voti raccolti, su 672 necessari. Con quei consensi ricevuti sarebbe diventato il presidente della Repubblica alla quarta votazione. Ed è a questo punto che la scena cambia senza un’apparente “ratio”. Invece di insistere su Marini, o cambiare cavallo sempre nell’ottica della più ampia condivisione del candidato presidente, s’individua il fondatore dell’Ulivo, Romano Prodi, come la possibile carta vincente. Il ragionamento che probabilmente fa il gruppo dirigente dei democratici ha alla base un che di furbesco o d’ingenuo. Romano potrebbe aggregare tutta l’area di sinistra. Sul fondatore dell’Ulivo, al di là dei mal di pancia dell’area cattolica interna, alla fine questa non potrà negare il voto ad un cattolico. Grillo, che ha nella rosa dei papabili anche Prodi, perché non dovrebbe convergere sull’ex presidente della Commissione europea? E Berlusconi? Resta il nemico da abbattere e Prodi è l’uomo giusto per farlo fuori. E la situazione italiana? Con un presidente della Repubblica di parte, che nomina un presidente del Consiglio schierato, tutto sarà più semplice, a partire dalle riforme. Se questi sono stati i ragionamenti che hanno portato alla candidatura di Romano Prodi è proprio il caso di citare il vecchio proverbio che dice: “Tutte le volpi alla fine si rivedono in pellicceria”.
Da parte sua Beppe Grillo era convinto di fare il colpaccio sul Pd. Stefano Rodotà era la sua carta vincente, non solo per la presidenza della Repubblica, ma anche per imporre al Pd la resa senza condizioni. Gli è andata male ed ancora peggio quando prima annuncia la “marcia su Roma” di mussoliniana memoria, gridando al golpe, eppoi la cancella perché, pare, non può arrivare in tempo con il suo camper a Roma. Il giorno dopo poi cambia tono ritenendo l’elezione di Napolitano “un golpetto istituzionale furbo”. In tante stranezze e furberie non si capisce per niente la posizione del ministro Fabrizio Barca, da poco iscritto al Pd e già candidato alla segreteria, quando sposa il candidato di Grillo in spregio a Giorgio Napolitano.
“E per fortuna che Giorgio c’è” è il ritornello che alla fine è stato cantato dalla grande maggioranza dei partiti italiani. Per prendere tempo e continuare con le solite manfrine? Può darsi. Ma Giorgio Napolitano ricorderà, ogni giorno del suo secondo mandato, che i giochetti non sono più possibili. Il Paese non li tollererebbe più.