Tutti De Sica
Oltre seicento fotografie, più di trecento lettere e documenti; costumi, oggetti, registrazioni sonore, proiezioni cinematografiche. Siamo a Roma. L’Ara Pacis ospita una ricca e interessante mostra sul cinema o meglio, su uno dei punti focali del cinema italiano. Vittorio De Sica, nato e rinato alla vita artitica almeno cinque volte, come egli stesso amava sostenere , è una delle voci più vive e uniche della cultura cinematografica e teatrale (e anche radiofonica) italiana. Nato una prima volta da genitori napoletani a metà strada fra Sora e Napoli, respirò la capitale partenopea servendosi di profumi annusati dall’alto di un palazzo pericolante, in un cuore topografico molto poco d’eccellenza, dove una casa di tolleranza e i dialoghi sul balcone con Olga, il suo primo amore, conferivano il senso della sua personalità versatile. Del Teatro era amante ufficiale, per riempirsi lo stomaco a volte lo era occasionalmente , ma comunque lo era. La compagnia di cui faceva parte all’epoca (parliamo degli Trenta del Novecento) fece un azzardo frivolo con Za Bum : ” il successo fu clamoroso e risolvemmo tutti i nostri guai . Quelli materiali, per lo meno. Ma quel trionfo non ci rendeva affatto felici, perché se avevamo lo stomaco pieno, adesso, rimpiangevamo il teatro VERO e ogni sera, prima di entrare in scena, a fare i buffoni, piangevamo tra le quinte sul nostro amaro destino di attori che si prostituivano. Il cinema si accorse di me”. Il padre amava cantare. Amore che gli trasmise con slancio, tant’è che il primo De Sica lo ricordiamo come tenorino dall’indole melodica. “Parlami d’amore Mariù” sarà il dolce tormento che egli replicherà fino all’ultimo e col quale giunse alla Mostra di Venezia per il film “Gli uomini che mascalzoni” . La mostra è un fitto percorso, un momento catartico, quasi ascetico che dal bello giunge al bellissimo , che non si svuota né si riempie mediante banalità , bensì arricchisce gli appassionati, che come adepti scrutano, si meravigliano e ne godono la grandiosità. De Sica e Zavattini come il cappuccino, per cui il caffè e il latte sono difficilmente scindibili, si sintetizzano nella caldera del Neoralismo. De Sica negli anni Quaranta è Sciuscià, è Ladri di biciclette, è Umberto D. Non è amaro il suo cinema, nè tantomeno caramelloso, è vero, forse a sé stante. Umberto D. non viene capito. Andreotti gli scrive accennando alla storia dell’equilibrio, dell’oggettività e del sano ottimismo che dovrebbero permeare le sue opere. Umberto D. è la crisi del tempo andato, è la maschera vera e lugubre del macigno della povertà mal vissuta, inaffrontabile. Abiti , copioni, foto. C’è tutto. O quasi. C’è la Loren. C’è l’Oscar per Ladri di biciclette. Le interviste a rappresentanti del cinema nel mondo che elargiscono a ragione encomi nei suoi confronti. C’è la vita privata, vissuta a metà. Una metà con una famiglia e l’altra con una meno ufficiale, ma c’è. E’amore per i figli, tutti ingigantiti dall’arte paterna e desiderosi di ingigantirsi volutamente per essere servitori d’arte, servitori di un sublime d’altri tempi. Dall’elegante e galantuomo signore degli anni Venti e Trenta , al farfallone anziano della vecchiaia in film leggeri, ma apprezzati da pubblico e critica. “Prima di morire mio padre chiamò attorno a sé noi figli e disse : “Vi lascio un grande patrimonio d’amore. Con la stessa frase mi congederò un giorno dai miei figli : Emi, Manuel, Christian. ”
Francesca Morgante