DON JUAN DE MARCO: UN TRATTATO PSICOLOGICO CHE DIVIENE FILM
Di Alessia Viviano
Quando la follia di un romanzo di George Byron viene riportato su di una pellicola, e quest’ultima viene interpretata dai grandi attori quali Marlon Brando, Johnny Deep e Faye Dunaway, non può che uscirne un capolavoro.
Stiamo parlando di un film del 1995, intitolato “Don Juan de Marco, maestro d’amore”, che vede come protagonista un giovane ma talentuoso Johnny Deep, che fedelmente riporta l’eterna lotta fra l’Io e l’Altro; fra ciò che “siamo nella società” e la “persona” che, repressa, si ribella dentro di noi.
Johnny Deep è un giovane mascherato che si crede Don Juan ed intende suicidarsi per un amore infelice. Dissuaso da uno psichiatra, viene ricoverato in una clinica dove, durante le varie sedute, racconta al medico la sua vita, colma di conquiste e di avventure, fino all’incontro con Ana che si nega a qualsiasi tipo di rapporto; in virtù di ciò il protagonista vuole appunto morire.
Il suddetto medico, interessatosi al caso, riesce a sottrarlo ai farmaci per studiare la sua mitomania. Ma la nonna del giovane smonta la sua fantasiosa storia. Frattanto il collegio medico insiste perché Juan sia sottoposto a terapia farmacologica, anche perché un giudice deve stabilire se rinchiudere o meno il giovane in una casa di cura. Il dottore, per non far internare il giovane, gli impone gli psicofarmaci e riuscirà cosi ad evitargli l’internazione.
In conclusione proprio lo psichiatra finirà per essere avvolto dalla mescolanza – contagiatagli dal giovane – di realtà e fantasia; si lascia così trasportare su un’isola sperduta con la moglie e viene travolto da un amore senza limiti nei confronti della consorte; amore che, prima di incontrare Don Juan, sembrava ormai esser spento e deteriorato.
L’amore che tanto esalta Don Juan è un sentimento astratto, nobile e bellissimo, quanto pericoloso; così molti finiscono per dimenticarsene, lo sottovalutano, o banalmente non ne colgono l’essenza. Quella di Don Juan è senza alcun dubbio una visione deformata della realtà, ma non per questo sbagliata o dannosa (come vogliono far intendere i medici); vuol far capire quale sia il vero nucleo dell’amore.
Lo scopo del film è finalizzato all’apprensione di ciò. Nella sua completa follia, l’affascinante ragazzo insegna che cos’ è l’amore e la vita al suo psichiatra.
La vita per Don Juan è stupenda, se vissuta come un sogno. La pellicola, o meglio, la trama, potrebbe considerarsi letteratura visiva, dimostrando che la normalità è relativa, cosi come lo è pure la pazzia. Ed ecco scorrere un susseguirsi di sfumature di realtà, fantasia e sanità mentale, che delicatamente si intrecciano. Del resto non è sempre facile capire se è presente un chiaro e netto limite tra realtà e fantasia. Forse ciò che importa non è capire quale sia la natura della malattia, ma piuttosto quale tipologia di strada fa imboccare.
Sembra quasi che, guardando il film, allo spettatore venga trasmessa una forza: la forza in sé stesso, di poter cambiare lo stato d’animo e far fronte a nuove prospettive che la vita riserva.
Non la si deve definire magia ma arte, filosofia di vita, o forse solo un meccanismo favorevole per vivere in un mondo cosi frenetico, dove un sentimento come l’amore è ormai accantonato.
Ma ciò che risalta nel film è come la favola di Don Juan abbia coinvolto chi gli stesse vicino, quasi ad infondergli una nuova linfa vitale. Forse sarà anche sbagliato vivere in un confine dove realtà e fantasia si confondono, ma chi non ha mai sognato di farlo? Purtroppo ciò che fa paura è il giudizio di chi ci circonda..
Davvero straordinario poi è il tipo di approccio e di gestione delle turbe del giovane delirante che il Dott.Mickler mette in scena. L’unica pecca che si potrebbe azzardare alla trama del film, è che non si capisce se Don Juan ricordi realmente quella che è la sua reale identità o se, davanti al giudice, racconti obbligatoriamente una verità che pur essendo tale non riesce a riconoscere.
A questo punto viene da pensare che il regista Leven abbia giocato volutamente la carta dell’interpretazione, volendo lasciare allo spettatore la facoltà di credere o meno al giovane.
Risulta evidente, allo spettatore più smaliziato, come non esista una verità oggettiva sulla natura dei contenuti narrativi (Sintomi deliranti? Romantica storia? Sogno nel sogno?) del giovane paziente, ma come egli e i suoi “deliri” divengano in un certo senso il catalizzatore dei sentimenti, delle emozioni, delle fantasie, e anche dei bisogni affettivi dello psichiatra.
Vedendo tale film si dimostra come i sogni siano la proiezione dell’inconscio individuale; ed il cinema è sicuramente la proiezione dell’inconscio collettivo, secondo il quale non solo occorre negare ogni significato al termine “malattia mentale”, ma bisogna anche rivalutare il significato del “viaggio” individuale nella follia. Insomma, lo spettatore sarà una sorta di “voyeur” e dopo la visione del film, né uscirà molto pensieroso.