Solo Dio Perdona – Only God Forviges
Julian allena pugili di thai boxe a Bangkok perchè ha ucciso il padre e non gli è rimasto altro se non fuggire dall’America dove la madre è a capo di un’organizzazione mafiosa. Suo fratello l’ha seguito ma non si è adattato alla vita locale e l’ennesima prostituta massacrata è il suo biglietto per l’obitorio. La cosa non è tollerabile e il capofamiglia si trasferisce a Bangkok intenzionata a fare giustizia a modo suo. Le regole di Bangkok non sono però quelle americane e la catena di vendette si interrompe subito quando tocca ad un poliziotto in pensione abile maneggiatore di spade che risponde al sangue con più sangue. In un mondo in cui tutti sono mobilitati per vendetta il più inadeguato però appare essere proprio Julian.
È andato fino in Thailandia Nicolas Winding Refn per girare un film asiatico (lo si capisce dai titoil di testa in caratteri thai), un’opera che parte da una trama presa dal cinema di genere e, come i migliori film di serie B, asciuga la narrazione, eliminando ogni orpello e ogni ridondanza per lasciare che solo un gesto, un dettaglio o un movimento accennato raccontino svolte ed eventi. Tuttavia nell’aciugare la messa in scena il regista danese non segue quel percorso che conduce alla serie B come la conosciamo ma ne prende un altro. Il suo film di vendetta, privato di ogni speculazione tra personaggi e raccontato mostrando anche meno dell’essenziale, è una girandola di omicidi con l’ingombro di un legame logico tra di essi, in cui i numi più importanti in materia (il cinema asiatico e il western) sono richiamati dalla scelta dei rumori sia delle spade sguainate che degli spari di pistola, una serie di suoni che non appartengono alle library del cinema intellettuale ma più a quelle iperboliche dei generi.
Così Solo Dio perdona è l’odissea finale di un uomo che ha scelto la boxe tailandese come lavoro dopo un’infanzia non semplice e un omicidio sulle spalle, un figlio non adatto al business di famiglia che si trova dover arrivare ai confini del mondo violento in cui vive per provare, suo malgrado, fino a dove sia in grado di spingersi, trovando un’inaspettata chiusa.
Lampade rosse, loghi rossi, luci rosse dei quartieri malfamati, delle palestre e dei bordelli, sangue rosso e scritte rosse (a detta del regista è quello l’unico colore che il suo daltonismo gli consente di distinguere) inquadrano un film con pochissime parole, una trama ridotta all’osso e un montaggio essenziale improntato su lunghe scene. Il centro della messa in scena rimane allora la fotografia, il modo in cui Refn guarda e ammira terrorizzato questi bellissimi abissi di efferatezza.
È evidente che nell’atto di massacrare c’è qualcosa di attraente per il regista danese, nell’esercizio della forza di un uomo su di un altro risiede un mistero inconoscibile che lo spaventa e attira al tempo stesso. Sono gesti che sceglie di mostrare con particolare dovizia di cui coglie l’evidente bellezza (presente sia in Pusher 3 che nelle risse di Bronson o nei martìri di Valhalla Rising e nelle esplosioni di sangue di Drive) ma di cui teme le orrende conseguenze con evidente sgomento. In un mondo (quello del cinema di genere e dei vengeance movies) in cui il perdono non esiste o al massimo è riservato a Dio, come del resto ricordano anche molti titoli italiani anni ’70, il suo protagonista non è un eroe ma un perdente su più fronti, fratello minore vessato da una madre padrona e incapace di perpetrare la propria vendetta come gli altri personaggi del film. Che ad interpretarlo sia Ryan Gosling, volto hollywoodiano e quindi eroico per definizione, è l’unico elemento realmente spiazzante ma in fondo in linea con le scelte anticommerciali e molto sofisticate del film.
Purtroppo non sempre la ricerca visiva è a livello delle legittime aspettative nè l’idea di riuscire a dipingere la purezza (nel bene e nel male) della violenza riesce a concretizzarsi davvero. Refn sa portare sullo schermo immagini di una perfezione formale e comunicativa impressionanti (il potere dell’ex poliziotto riassunto nei colleghi in uniforme che lo seguono costantemente come guardie del corpo ma muti e un’inaspettata riconciliazione materna attraverso l’immersione nella carne di uno sguarcio nello pancia) eppure questa volta l’impressione è che non sia sufficiente.