Chef Cannavacciuolo: si racconta il napoletano svizzero della tv

In onda la scorsa primavera sul canale Fox Life, il programma Cucine da incubo Italia – versione nostrana del noto format Kitchen Nightmares – ha riscosso un eccellente favore del pubblico; tanto che, proprio in questi giorni, prendono il via i casting per la seconda stagione.

brig 3Alla pagina www.foxlife.it/cucine-da-incubo/casting potranno iscriversi tutti coloro che, avendo un’attività di ristorazione in difficoltà, desiderino rimettersi in sesto grazie all’aiuto dello chef Cannavacciuolo.

Il “copione” resta il medesimo, con i suoi ristoratori sull’orlo del fallimento, le cucine disastrate, il personale e l’arredo non all’altezza delle circostanze;  ma soprattutto non cambia il principale protagonista della serie, Antonino Cannavacciuolo. Lo chef partenopeo infatti, non solo ha saputo gestire al meglio la pesante “eredità” del collega britannico Gordon Ramsay, ma imponendo sin da subito il suo stile e la sua personalità, è stato in grado perfino di assurgere al ruolo d’icona, con tanto di tormentoni annessi: vale a dire i suoi inconfondibili “adiòs” e “seguimi su brig 1twittè”.

Il gergo, insieme ai suoi modi mai artefatti e al fare genuino, hanno concorso a creare un personaggio quanto mai autentico, e gradito agli spettatori.

Molti i sorrisi mietuti al pubblico dai leitmotive dello chef, che – sebbene lo collochino in uno scenario poliglotta ed informaticamente avanzato – conserva gl’inconfondibili sentori dell’accento campano.

Ad ogni passo del cuoco stellato spuntano riferimenti alla cultura napoletana e alla sua gastronomia.

Chef Cannavacciuolo, le sue radici hanno un legame con la passione che nutre per la gastronomia?

Beh, la vita del napoletano è costellata dal cibo; anzi, possiamo dire che il napoletano quasi viva per il cibo.

Il ragù domenicale? È bibbia. La domenica le mamme, le nonne si svegliavano alle 5 del mattino, e per prima cosa, brig 2provvedevano a preparare questa salsa divina. Noi ragazzini, non essendo a scuola, ci svegliavamo più tardi del solito, e trovavamo ad attenderci una singolare, quanto appetitosa colazione: pane intinto nel ragù, e parte della carne ancora in cottura. Svegliarsi con quel profumo è una sensazione che non dimenticherò mai!

Il cibo a Napoli celebra ogni momento importante della vita… per non parlare del Natale, della Pasqua: periodi dell’anno splendidi per i bambini, e non solo. Le lunghe e ricche tavolate, l’allegria di stare insieme e condividere le gioie della cucina, rientrano a pieno titolo in quella che è una vera e propria «cultura del mangiare».

Lei è nato e cresciuto in Campania, ma da diversi anni lavora nel nord Italia; in cosa differiscono lì i gusti, e dunque il suo lavoro?

Rispetto al sud, nel settentrione si predilige l’opulenza del vino a quella delle portate. Inoltre è maggiormente apprezzata la creatività, connessa all’aspetto estetico del piatto; in questo mi ritrovo molto: ritengo che la presentazione di una pietanza possa fare la differenza.

A Napoli invece, a causa dell’antica tradizione culinaria che si tramanda di generazione in generazione, bisogna fare maggiormente attenzione al sapore delle pietanze piuttosto che all’esteriorità.

In generale, comunque, devo ammettere che la cucina partenopea qui è molto gradita, e grazie anche a personaggi di spessore come Don Alfonso, le nostre ricette sono oramai conosciute, e apprezzate, ben al di fuori dei confini regionali.

Ci sono invece momenti in cui, nella sua cucina, la dicotomia tra meridione e settentrione diviene labile?

Assolutamente si! I plin alla partenopea sono un ottimo esempio di felice incontro tra le due culture. In Piemonte il termine plin indica un tipo di pasta fresca ripiena. Nel caso di quelli alla partenopea, la sfoglia è farcita di genovese; questi infine vengono impiattati con una spuma di parmigiano, e ricoperti da una tartare di carne che non solo richiama l’imbottitura, ma contrasta con la dolcezza caratteristica delle cipolle.

Un’altra proposta, che ho inserito in menù quest’anno, è la zuppa forte con i gamberi; ho pensato di mitigare così il particolare gusto originario, perché… beh, per apprezzare a pieno alcuni sapori bisogna crescerci insieme.

In cosa si differenzia la sua cucina sperimentale da quella tradizionale, e quali sono invece i punti in comune?

Per quanto mi riguarda la tradizione è indiscussa: resta alla base di tutto. Non a caso nei miei menù non mancano mai piatti folcloristici come la genovese, la parmigiana di melanzane, e la pasta fagioli e cozze. L’innovazione, invece, è nell’abbinamento inconsueto dei sapori, nell’accostamento degl’ingredienti che punta a sorprendere sempre, o nelle esecuzioni che i nuovi macchinari consentono di realizzare.

Ci farebbe un esempio pratico?

Nel 2005 ho creato la versione liquida della celeberrima pastiera napoletana.

L’aspetto, il sapore, gl’ingredienti: tutto riconduce al dolce originale.

Guai però ad immaginarla come la solita “crostata”: si tratta di un dessert al cucchiaio, dal corpo simile alla crema pasticcera, che racchiude un cremoso di ricotta e limone; infine, per ingannare l’occhio riproducendo la parte esterna brig 4della vera pastiera, la variante fluida consta di una pellicola superficiale brunita e di una candida cialda di zucchero, che rappresenti quello che solitamente si condensa per effetto dell’umidità della torta.

Qual è l’accostamento più ardito al quale la voglia d’avanguardia l’ha condotta?

Non parlerei di abbinamenti bizzarri, perché ai miei occhi tutto risulta normale.

Da più di dieci anni però, sono solito proporre quello che forse è il mio cavallo di battaglia: il connubio di carne e pesce.

Non nascondo di aver ricevuto diverse critiche in principio, ma attualmente è un’usanza del tutto sdoganata.

C’è stata poi l’insalata liquida, la pastiera liquida: mi diverto a stravolgere un po’ le cose… anche se, ripensando ai tempi trascorsi, riconosco di aver superato quel periodo in cui si lavora a briglie sciolte, in cui tutto sembra possibile; ora mi sento cresciuto, più maturo.

A proposito di rimproveri, ce n’è uno che ha ricevuto più di recente?

Riguardo a un piatto tipico napoletano mi sono state dette, da uno storico cliente dell’entroterra campano, testuali parole “Mia madre lo cucina meglio.”

Dopo una risata di cuore, scappata per la candida franchezza dell’affermazione, ho riconosciuto con altrettanta onestà che, sebbene io utilizzi solo prodotti di primissima scelta, nulla regge il confronto con le verdure coltivate nell’orto di casa, o con la carne proveniente da allevamento su scala personale.

Dimostrando grande  modestia ha fatto riferimento alle “critiche” che le sono state mosse; ci saluterebbe invece raccontandoci di un complimento ricevuto, e che più le sta a cuore?

Spesso è stato detto di me che sono un “Napoletano Svizzero”. Il mio parlare, le movenze, l’approccio alla vita rispecchiano, senz’altro, le mie origini partenopee. Nel lavoro invece emerge un’altra parte di me: la precisione, lo zelo, la puntualità, l’attenzione quasi maniacale ai dettagli si definirebbero “elvetici”.

Da quando lavoro sul lago d’Orta poi, avendo una veranda del ristorante che affaccia sul verde, mi è stato anche detto che, gustando i miei piatti, dalla finestra, in lontananza, si può scorgere il profilo del Vesuvio. In tema di “cuore”, non c’è nulla che mi emozioni di più che sentire parlare della mia amata terra…

a  cura di Annamaria Cerio