Work in progress: le Madri di Mario Ferrante
«Ospitare una mostra di Mario Ferrante è motivo di orgoglio e crescita, la sua arte è riconosciuta a livello internazionale, è apprezzato da pubblico e addetti ai lavori, è autore di opere che, immediatamente riconoscibili per stile e profondità, arrivano in modo trasversale, e questo è il tratto principale della sua grandezza». Così il curatore e appassionato d’arte Andrea Ingenito parla di Mario Ferrante l’artista romano protagonista fino al 6 novembre presso la Domus Artis Gallery con la personale “Work in progress: le Madri”. L’esposizione, il cui nucleo è un’installazione multisensoriale che pone a confronto proprio la cultura brasiliana con il pensiero e il gusto europeo, s’inserisce nel più ampio progetto Work in progress, che evidenzia i momenti cruciali della continua ricerca di Ferrante attraverso l’evoluzione tematica e l’inedita sintesi cromatica e compositiva. La “sezione” Le Madri, infatti, segue e rinnova la mostra “Work in progress. A bençao da mae de santos” ospitata lo scorso settembre dal Museo di Arte Contemporanea del Sannio ARCOS di Benevento, ponendosi come seconda tappa dell’evento che proseguirà, con ulteriori arricchimenti, verso Bruxelles e Amsterdam. Un artista di grande spessore ma anche dalla fortissima umanità, emersa con delicatezza e ironia nel corso di un appassionante salotto culturale improvvisato in occasione del vernissage, grazie alle domande della giornalista Serena Romano. Con eleganza e freschezza l’autore capitolino, ma anche brasiliano e sannita, si è così raccontato a partire proprio dalla sua passione per la terra carioca, fortemente presente nei suoi lavori tanto per i soggetti quanto per l’ingenuità esistenziale, il profondo rispetto per i riferimenti accademici canonici, la contestazione verso un’“avanguardia” «che -afferma Ferrante- ha sdoganato tutto, anche ciò che non andava sdoganato», e poi l’uso sapiente e riconoscibile del nero, non un colore, bensì “assenza totale di luce”, i suoi intensi e abili colpi di spatola, che trovano una corrispondenza stilistica nelle eleganti sculture in terracotta, e, infine, il “casting artistico”, perché come un regista seleziona gli attori per raccontare la storia, così Ferrante sceglie i personaggi che possano meglio raccontarlo. Ad impreziosire la personale, c’è un video, un supporto ispirato ad uno dei momenti più suggestivi del Candomblè, la religione afro-brasiliana che mescola riti indigeni, credenze africane e Cristianesimo, surreale sequenza di immagini che narra il rituale mistico dedicato a Lemanjà, la dea del mare (identificata sincreticamente nella Vergine Maria), officiato dalla mãe de santo (letteralmente la “madre di santi”) che, in qualità di sacerdotessa e maga, entra in contatto con gli spiriti per ottenere la benedizione della dea. «La donna per me è principalmente madre, è una figura complessa e meravigliosa che si scopre in tutta la sua sensualità con gesti inconsapevoli e naturali» afferma Ferrante, e proprio con un omaggio alla donna, alla sua “sacralità” e al suo amatissimo Brasile dove ha vissuto undici anni e dove torna quando può, si è aperto il vernissage, una performance di musica e danza realizzata da Edmilson Lemos (in arte Mestre Carcarà, ndr), Rita Costa, Raimundo Laersio, Ivanilda Leal, Adaiton Silva e Val Telesdapaixao, con costumi di Marisa Bertolini e trucco di Francesco Magnetta, realizzata davanti all’ingresso delle location espositiva ha dato il via a questa coinvolgente ed entusiasmante avventura, la stessa che si muove sinuosamente nelle tele oniricamente concrete di uno tra i più importanti artisti contemporanei storicizzati al mondo, Mario Ferrante.
A cura di Rosaria Morra