Musei in Italia ancora poco “Social”
Museo mio, quanto sei lento. Non c’è classifica dei luoghi culturali più belli e frequentati del mondo in cui l’Italia non sia tra i primi 100 posti. Ma quanto a capacità di autopromozione siamo nella black list degli incapaci. Nell’epoca degli open data e della rivoluzione dei social network, i musei nostrani si scoprono Brontosauri tecnologici.
Twitter, cos’è? Profilo Facebook? Una moda. Roba da ragazzini o smanettoni. La cultura è altrove, sono le opere d’arte, le mostre, e purtroppo i monumenti che cadono a pezzi.
Visione semplicistica, detta così, ma alla prova dei fatti non tanto lontana da come la pensa qualcuno. Che sia snobismo o scarsa capacità di visione delle nuove strategie di marketing, per di più a costo zero, il Belpaese è indietro anni luce sul digitale e usa male, o addirittura non usa, i canali “social” per raccontarsi al mondo e catturare nuovo pubblico.
Di “cinguettare”, la maggior parte dei musei italiani non ne vogliono sentir parlare. E’ vero, fa eccezione l’arte contemporanea, ma le potenzialità sono ben maggiori. Facebook piace, ma con sforzo, pagine mal gestite e poco aggiornate. Instagram, Pinterest e il quasi dimenticato Flickr, Youtube, il canale video più battuto sul pianeta, Foursquare e Spotify sono un optional per la cultura, e pazienza se sono battutissimi dal pubblico giovane.
Il problema sta qui: un buon museo, ovviamente, non lo si riconosce non dal numero di “follower” o dei “cinguettii” su Twitter, ma per stare al passo coi tempi la rete è ineludibile. E cosa c’è di meglio di un canale gratuito che mette in contatto New York con Dubai, Shanghai con Firenze? I grandi musei mondiali si sono riconvertiti da un pezzo, creando professioni ad hoc, come quella del Digital Media Curator, che ha portato il Moma (@MuseumModernArt) di New York al traguardo di 1,64 milioni di follower, 680 mila per il Metropolitan (@metmuseum), 269 mila per il British Museum (@britishmuseum).
Ma veniamo all’Italia. Prendiamo gli Uffizi: 1 milione 700 mila visitatori reali all’anno, in carne ed ossa. Al 21° posto della lista mondiale dei musei, ma il profilo Twitter nemmeno ce l’ha. E quello del Polo Museale di Firenze (@PoloMusealeFi, con buona pace dell’ex sindaco Renzi, “cinguettatore” professionista) fa tristezza: ha 1130 follower, segue 50 persone e ha twittato solo 280 volte. Va meglio su Facebook, dove quasi 90 mila persone dichiarano di essere state agli Uffizi.
I Musei Vaticani neppure sono su Twitter, come Pompei. L’Egizio di Torino c’è (@MuseoEgizio), ma segue più persone (146) di quante seguono lui (128) e ha il primato degli 0 tweet. Non va meglio a Roma: le Scuderie del Quirinale (@Scuderie) hanno 2800 follower, Galleria Borghese non pervenuta. A rappresentarla virtualmente Paolina Bonaparte (@Paolina_BB), che ha un profilo tutto suo e cinguetta parecchio, ma è un fake e con l’arte ha poco a che fare. Nella galassia del contemporaneo le cose vanno meglio. Dal Castello di Rivoli (@rivolicast, 5200 follower, ma twitta pochino) alla Gam (@gamtorino, 6200), dal Maxxi (@museo_MAXXI, 24.500) al Mambo di Bologna (@MAMboBologna, 12.000) al Mart di Rovereto (@mart_museum, 15.200). E la dimostrazione che Twitter sia una miniera d’oro a zero spese è il MUDIMilano, il museo diocesano del capoluogo lombardo: quasi 2000 follower e una popolarità in crescita, nonostante non sia un big.
In uno studio sui musei e Twitter, realizzato dalla società di marketing spagnola LaMagnética e presentato a Firenze il 19 febbraio, risulta che nel mondo gli anglosassoni sono i padroni della rete. Meno bene vanno i tedeschi e i francesi, mentre per l’Italia l’unico alfiere del social networking è Palazzo Madama di Torino. Su 1789 account aperti su dai musei, che hanno portato 124 mila interazioni da aprile 2013, solo Torino è riuscita a sfondare la cortina dell’anonimato in Europa e nel mondo. Carlotta Margarone, 35 anni, la digital media curator di Palazzo Madama spiega le strategie del successo: “Da quando il museo ha riaperto, nel 2007, abbiamo puntato sulla costruzione di una reputazione social per espandere il pubblico – dice –. Non è solo il numero dei follower l’importante, ma la rete di relazioni che riesci a tessere nel mondo”. Un esempio? Quando ti ritwittano da Dubai, commentando le foto di donne col velo dell’ultima mostra di Eve Arnold, e ne nasce una conversazione in 140 caratteri sugli usi e i costumi del mondo arabo a metà del ’900. Son soddisfazioni. Margarone sarà la rappresentante italiana a Museum Next, a New Castle in estate, il forum internazionale delle nuove strategie per i musei. “C’è ancora molta paura di utilizzare certi termini come marketing della cultura – aggiunge -. C’è una lentezza di fondo che va superata, è necessario capire che le piattaforme in rete aiutano a costruire e rafforzare il brand dei musei”. Ma c’è un però: “Il digital media curator è un vero e proprio lavoro ed è assai impegnativo. Se è fatto male, meglio non farlo. Basta uno scivolone per rovinare l’immagine”. La rete non perdona.