Jethro Tull – Thick as a Brick – l’Anti-concept album

asasaQuando hai tra le mani una copia originale dell’album dei Jethro Tull “ Tick As a Brick”, e ne tocchi la copertina, gli occhi vanno su e giù a cercar di leggere le notizie e la mano a voler sfogliare quelle pagine per veder che ci trovi in seconda pagina, proprio come se leggessi un giornale.

Prima ancora di ascoltare l’album, però, è chiaro che Thick as a Brick fu l’ “Anti-concept” per eccellenza. Il giornale che racchiude il disco racconta in prima pagina la storia di un immaginario ragazzino di 8 anni, di nome Gerald Bostock. Gerald finisce nel bel mezzo di una polemica in seguito alla vittoria di un concorso di scrittura locale.  La notizia, spiega, la poesia di Gerald, intitolata Thick as a Brick, a quanto pare  offende un numero di persone, portando ad una forte domanda da parte del pubblico e dei giudici di revocare il primo premio. Le note di copertina all’interno della versione originale in vinile apribile contiene una serie di storie, alcune delle quali sono reali e altri in parodia del giornalismo del tempo. Tutto “falso” giornale, si possono trovare pezzi di poesia di Gerald sparsi tra gli articoli, i pezzi sparsi di poesia, come spiega un articolo, saranno utilizzati per fornire il testo della canzone per il nuovo album dei Jethro Tull.
L ‘”anti-concept” e gli aspetti satirici di Thick as a Brick non si limitano all’imballaggio dell’album, tuttavia. La band ha scelto di integrare vari elementi considerati marchi di garanzia del sottogenere rock progressive in Thick as a Brick, oltre la durata del brano epico, compreso l’uso di una serie di strumenti atipici per il rock, tra cui lo xilofono tromba, il clavicembalo, liuto. E la musica? Thick As A Brick è un‘unica suite di oltre quaranta minuti, divisa in due parti ma solo per l’esigenza logistica, al tempo, delle due facciate dell’LP. Rispetto ad Aqualung c’è chi ci vede un ulteriore miglioramento ed affinamento dell’arte di questo grande gruppo, chi invece lo considera un mezzo passo falso, e comunque niente di paragonabile al capolavoro precedente .Ian Anderson espone subito nel lungo prologo le sue (al tempo) proverbiali creatività, personalità e precisione alla chitarra acustica, Si è sempre poco parlato dell’Anderson chitarrista acustico a causa della grande risonanza apportata dalla sua innovativa e incisiva tecnica al flauto suo strumento principale, ma lui è un grandissimo anche all’acustica! La Martin D-28 di Anderson scorrazza dunque in lungo ed in largo nell’introduzione della suite, missata bassissima per accentuare la dinamicità degli stacchi degli altri strumentisti, sempre più frequenti finché prende corpo l’andamento orchestrale della musica. Pregevoli sono gli intarsi e gli assoli di chitarra elettrica di Martin Barre, un impagabile musicista dotato di senso melodico, misura e buon gusto proverbiali, nonché del tastierista John Evans che si destreggia al piano e soprattutto all’ Hammond anch’esso con misura ed incisività. Nella sezione ritmica spicca il nuovo batterista Barriemore Barlow, assai più potente ed estroverso del più classico e jazzatoClive Bunker da lui rimpiazzato. Il flauto c’è spesso e volentieri ma ha una funzione più di abbellimento che di vero centro focale della musica, con continui svolazzi ai lati del panorama sonoro e rari passaggi solistici veri e propri.Gli ultimi minuti di questa prima parte della suite, con un bellissimo cantato di Anderson sopra il suo sapiente accompagnamento alternato fra le corde basse e alte della chitarra ed un andamento della ritmica a marcetta ma molto lirica, a giga celtica ma con concessioni pop rock, folate di flauto tutt’intorno come uccelletti garruli e poi l’improvviso e drammatico chiudersi sul Do minore dell’acustica, da dove poi partono deflagranti e drammatici stacchi elettrici fino all’inviluppo terminale.La seconda parte, decisamente meno riuscita: i temi sono suppergiù quelli della prima e stavolta la loro ulteriore riproposta provoca una discesa di tensione e fascino, le variazioni d’arrangiamento non sono poi così importanti o riuscite, qualche tema nuovo affiora ma non è niente di speciale.Spunta anche l’orchestra classica, arrangiata dal “sesto uomo” del gruppo Richard Palmer James, che fa grandi cose verso la fine … ma insomma, la mia tesi è questa: se la suite fosse stata contenuta alla sola prima facciata, essa sarebbe stata perfetta, inimitabile. Non per niente i Jethro sono soliti riproporre “Thick As A Brick” nei loro concerti in una versione della durata di quindici, diciassette minuti, tutti incentrati sui contenuti della prima facciata, una compressione efficacissima e con grande riscontro del pubblico in sala.

Di Antonio Elia

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