Paesaggio Flegreo – Mario Sangiovanni
«Un luogo vissuto e vivo, dove la gente si esprimeva, e che raccontava emozioni e sogni, un futuro da costruire e un presente dinamico». Così Mario Sangiovanni descrive Pozzuoli, protagonista di “Paesaggio flegreo”, la sua personale a cura di Patrizia Di Maggio e Daniela Ricci, in mostra presso la sala Dorica di Palazzo Reale fino al 29 aprile. I lavori che trovano spazio nel minimale allestimento pensato ad hoc per esaltare i colori e le forme espressioniste tanto care all’artista matematico, rappresentano i frames di un film che racconta il recente passato e il presente dell’area flegrea: il boom industriale, con le ciminiere di un trascorso che ha dilaniato un paesaggio, invece, naturalmente vicino al turismo, le barche e i porti di quella vocazione che ha fatto la storia di quei luoghi, e poi i profili netti delle case: «l’edilizia chiara e umile di fine Ottocento, accuratamente scelta dall’autore, ci mostra, come in una sineddoche, quelle che dovevano essere le tipologie e le morfologie dominanti in una città ormai fusa, senza soluzione di continuità, con l’entroterra e -scrive Stefano Gizzi, soprintendente per i Beni architettonici, paesaggistici, storici, artistici ed etnoantropologico per Napoli e provincia, in catalogo- saldata, lungo la fascia costiera, con il resto del magma edilizio corrente». L’esposizione, infatti, è un perfetto lungometraggio, steso su pannelli bianchi e visibile o in un’unica soluzione o a tappe, per una fruizione del momento evolutivo che ha modificato in modo massivo il territorio. Un racconto, ma anche una dichiarazione d’amore verso quell’umanità spontanea e verace di una terra di mare, dove l’artista «restituisce per immagini la percezione e la fascinazione trasmesse: un’osservazione congelata dove la realtà appare quasi sedata, depurata da qualsiasi elemento che possa turbarne l’equilibrio, indagata -sostiene Di Maggio- nel silenzio e nell’immobilità». La cromia cupa e le forme geometriche sembrano quasi allontanare l’uomo che, nonostante l’assenza formale, è in ogni oggetto, perché autore stesso di quel paesaggio: «la presenza umana è inesistente per indicare il presagio di un destino di solitudine e desolazione di un’area dalle mille risorse naturali meravigliose, ma anche industriali, impressi -afferma Ricci- sui supporti con una pittura caparbiamente figurativa che riconosce le proprie radici nell’espressionismo tedesco e in quello d’oltreoceano». Un diario le cui pagine abbandonano la parola per il segno, un tratto tanto semplice quanto acuto, in cui perdersi per ritrovarsi.
Rosaria Morra