Bossi e il familismo amorale che divide la Lega
Siamo agli stracci che volano. Bossi non è uomo che usa eufemismi per apostrofare qualcuno. E’ Berlusconi il suo obiettivo attuale. Una “mezza calzetta” che non vuol mandar giù i professorini “usurpatori” del Governo legittimo. Quando hai assaporato le logiche del potere, quello ”che non logora chi ce l’ha”, Andreotti docet, allora stare all’opposizione è faticoso. Certo, il carisma è cosa importante. Aiuta. Potere reale e carisma sono meglio però. Insomma, per Bossi mala tempora currunt. E la prova provata delle difficoltà del Senatur sono le sue corse in avanti, eppoi il comando “d’indietro tutta”. Una per tutte è l’imbavagliamento di Maroni. Dopo il suo voto per la galera a Cosentino, ecco subitanea la sconfessione dell’ex ministro dell’Interno che parte dal “cerchio magico” di Bossi. Solo dopo una manciata di ore, che fanno capire al vecchio capo dove soffia il vento, parte la telefonata conciliatoria. Nessun calcio in c…, come previsto da copione, ma mano tesa a Roberto Maroni. Eppoi, cambio di guardia a Montecitorio tra il capogruppo leghista Reguzzoni e Giampaolo Dozzo. Operazione che sa tanto di risarcimento danni. La cosa preoccupante per l’Umberto è che le sue colorite uscite, veri e propri siluri sparati a destra e a manca, non colpiscono più nel segno come una volta. Prendersela con il Cavaliere e ipotizzare rotture in Lombardia per far saltare Formigoni, sono minacce non ben meditate che servono solo ad alzare cortine fumogene. Una specie di collante per provare a ricompattare il popolo padano a cui le annunciazioni miracolistiche non bastano più. Un modo per trovare unità individuando un nemico da abbattere. Maroni per il momento si è portato a casa un pareggio, ma già si prepara a giocare altre partite che potenzialmente lo vedono vincente. Il suo codice di comportamento è quello di mai criticare il capo, da una parte, anche se certe sue uscite sono inaccettabili. Dall’altra, dare un’immagine della Lega – e di se stesso – di pragmatismo operativo, senza fronzoli, né esasperazioni pretestuosamente divisorie. Una realtà in movimento, che punta al benessere del popolo padano non staccato dal resto del Paese, né dell’Europa. Un modo di muoversi felpato ed efficace, già sperimentato al dicastero dell’Interno, dove i successi sulle mafie non sono stati mai enfatizzati come vittorie personali o leghiste, ma d’efficienza dello Stato. Ragionevolezza nell’operatività, senza per forza spaccare. Insomma, in primo luogo risoluzione delle questioni al di là delle ideologie. Un viatico indiretto sul modo di operare di Maroni pare venga dal sondaggio fatto da radio Padania sull’azione del governo Monti e subito – ovviamente – cancellato dal sito leghista. Una percentuale altissima di leghisti approverebbe l’azione di Monti. Altro che opposizione e “tutti a casa”, come ripete in un ossessionante leitmotiv Calderoli. La vera grana tosta che Maroni si troverà d’avanti, e le prime avvisaglie già si sono viste, è una tematica tutta meridionale, ovvero attribuita alle popolazioni del Sud: il familismo amorale di Edward C. Banfield. Certe ipotesi successorie del Senatur, avallate dal “cerchio magico” nell’ottica della conservazione del potere interno, non lasciano presagire niente di buono. Da questo punto di vista il Cavaliere ha giocato meglio le sue carte designando, in periodo non sospetto, Angelino Alfano suo erede. E, da navigato imprenditore, sa bene che il momento non è propizio per colpi di testa, per staccare la spina ai supponenti professorini. Nemmeno le provocazioni colorite prese a prestito da alcuni dei suoi dal dramma della nave Costa Concordia, “capitano, c…, salga a bor- do”, lo smuovono. Lui, l’ex Caimano, sa bene che ha tempo fino a marzo per tessere la sua tela. C’è da riassemblare il partito. Cosa difficile anche per uno navigato come lui, senza il potere che gli veniva dall’essere inquilino di Palazzo Chigi. C’è da rafforzare la leadership di Alfano, che non può vivere più di luce riflessa. C’è da ipotizzare nuove alleanze per le amministrative che, ovviamente, dovranno tenere anche per le politiche. C’è da ricostruire un po’ tutto quanto costruito in un ventennio. C’è da scommettere però che lui, Silvio da Arcore, quello che fu ”il presidente operaio” non mollerà. Bossi e Berlusconi, mai così vicini come in questo momento, con identici problemi da dipanare.
Elia Fiorillo