Cappuccetto Rosso Sangue – la recensione del film di Catherine Hardwicke
Cappuccetto Rosso parla col lupo e lo capisce, per questo viene creduta una strega, e mentre nel villaggio di Daggerhorn il lupo travestito da uomo (perché è mannaro) continua a mietere vittime, lei si interroga se debba seguire il suo cuore o sua mamma. Catherine Hardwicke è la regista che parla ai “giovani”, ma cosa gli dice? Che il mondo è fatto di inganni e seduzioni, di amore, sacrifici e scelte difficili. Ma senza esagerare. Cappuccetto rosso sangue è la nuova creatura della regina di (un solo) Twilight, io avrei voluto vedere Twilight a quindici anni e anche Cappuccetto perché non sarei stata indulgente. Invece forse adesso un po’ lo sono. Poiché quelli che possono considerarsi difetti, indecisioni e freni inibitori sono per la regista dei teen un marchio di fabbrica. c’era una volta tinto di rosso sangue è un po’ come il vampiro vegetariano, non vuole più di quel che dà (allo spettatore). Gotico, dark, horror (proprio no), la nuova veste della favola di Capuccetto Rosso è in realtà un’appendice delle molte leggende che gli ruotano attorno, dalla tradizione orale di 700 anni fa, alla versione scritta da Perrault (priva di lieto fine), ai più recenti adattamenti di inquietanti racconti sui lupi (vedi In compagnia dei lupi di Neil Jordan). Nel tentativo secondo me interessante, e per alcuni versi riuscito, di destabilizzare lo spettatore, il film è in gran parte negli occhi di una bellissima e sfacciatamente ingenua Amanda Seyfried, nella crudeltà giocosa delle prime immagini e nella cupa, oppressiva atmosfera del villaggio medievale.
Un villaggio (ottimamente ricostruito anche con i suggerimenti dell’architetta Catherine) insidiato da una creatura (lupo spelacchiato e sovradimensionato), che durante il plenilunio miete vittime e ogni tredici anni, con “luna di sangue”, condanna i malcapitati al suo stesso destino. In questo clima di paura Cappuccetto Rosso, deve scegliere tra la passione per il focoso ma povero taglialegna (Shiloh Fernandez) e il matrimonio di convenienza con il virtuoso ma poco carnale (Max Irons).
Ora il buono è che il sottotesto sessuale a cui si presta la storia originaria (fanciulle guardatevi dagli sconosciuti, il lupo si può nascondere anche nell’individuo più insospettabile) è meno puritano e meno sottotesto. Catherine, pur poco supportata dalla sceneggiatura, tenta veramente di far perdere il controllo a Valerie (Cappuccetto Rosso), di farle varcare la soglia della maturità, di farle scoprire l’intesa che solo il corpo ti confida (un passo avanti rispetto a Twilight). E poiché il monito moralizzatore è affidato a una figura sacerdotale, quella di padre Solomon (Gary Oldman), che nel suo agire inquisitorio ma vile risulta caricaturale, riusciamo a scongiurare anche l’intento didascalico. Alla fine non importa se c’è un triangolo amoroso che ricorda Edward/ Bella/Jacob di Twilight, non importa (davvero) che i pretendenti non abbiano un taglio di capelli “medievale” e che la nonna (Julie Christie) di cui non sveliamo di più, indossi abiti trendy arcaici, importa di più invece che la commistione tra romance e thriller, licantropi e caccia alle streghe, favola e dark non sappia bene che direzione prendere. Ma questa confusione e intreccio di elementi è il riparo sicuro e il tranello di Catherine che ancora non è pronta a lasciare l’adolescenza. Perché questa giovinetta incappucciata che cammina da sola nel bosco e incontra lo sconosciuto vorace, non è ancora capace (ma forse lo sarà) di sopportare ogni turbamento.
Alessia Tritone