C’era una volta Mamma Rai
Una volta era la mamma di tutta l’utenza radiotelevisiva. Una madre un po’ dispotica con i suoi figlioli, ma sostanzialmente equa. Sapeva educare, divertire, informare. Per lo meno ci provava. Altri tempi. Oggi pare sia diventata un grosso cetaceo spiaggiato – la definizione e’ di Giovanni Minoli – su cui saltar su per azzannarne un pezzo e per spartirselo tra i soliti noti, cioè i politici. Ma non solo loro, in verità. Parliamo di Rai. Della più grande azienda culturale del nostro Paese ridotta ad una concessionaria di favori e prebende a chi sta nel giro. Un servizio pubblico che più privato e familistico – amorale si capisce – non si può. Ciò perché il vecchio manuale Cencelli della politica prima Repubblica qui non e’ stato mai abrogato, anzi forse e’ stato sofisticatamente implementato, a tutto scapito dei radio-telespettatori che meriterebbe ben altro. Al Convegno organizzato dalla Cisl, dall’emblematico titolo: “Rai, un bene comune da rivalutare”, si e’ discusso di come far risorgere un’azienda che ha tutte le potenzialità per ritornare agli antichi splendori, nonostante sia saltato da tempo il sistema monopolistico. I numeri parlano chiaro: 13.000 dipendenti, un fatturato di circa 3,2 miliardi di euro, di cui 1,6 derivati dal canone, 985 milioni raccolti dalla pubblicità e il resto dai diritti radiotelevisivi. Per converso c’e’ da registrare una pletora di presidenti, direttori generali, consiglieri di amministrazione, consulenti succedutosi dal 1994 ad oggi: 13 presidenti, 12 direttori generali e via dicendo. La logica di gestione e’ tutta l’opposto di quella codificata tanti anni fa in una circolare IRI. Donato Menichella, grande dirigente dell’Iri post fascista, con queste parole stabilì il confine tra le aziende allora a partecipazione statale e le pressioni dei partiti: “Il costo dei condizionamenti politici che concorrono a formare le direttive date dall’Iri alle imprese non deve mai superare l’ammontare dei profitti conseguiti dall’ente”.
Che fare per cambiare? A volte si pensa alla privatizzazione come rimedio assoluto, senza tener conto che nel nostro Paese spesso anche il privato è politico. Nell’intervento di chiusura del convegno Raffaele Bonanni ha ricordato l’Alitalia come esempio di privatizzazione da non seguire. La Rai è, appunto, un bene comune che deve restare tale, ma che bisogna rivalutare e rilanciare. A partire dal prodotto che non può essere costruito in funzione dell’Auditel e della pubblicità da acchiappare. Una cosa è la televisione commerciale, un’altra è il servizio pubblico che però deve essere tale. Certo, la governance è essenziale per le sorti di una società pubblica come la Rai. Ma se qualche esempio va mutuato dal privato è proprio sul fronte del governo. Che senso ha un Cda spesso formato da soggetti con nessuna esperienza nel settore radiotelevisivo e con un direttore generale ed un presidente in eterna contrapposizione? In quale azienda privata una cosa del genere è praticata o tollerata? E che senso ha avere una ricchezza di risorse umane se poi si utilizzano male e si ricorre puntualmente all’esterno?
Il 2016 è dietro l’angolo. E’ la data della scadenza per la Rai della “Concessione in esclusiva del servizio pubblico di diffusione di programmi radiofonici e televisivi”. Un servizio che, secondo la legge Gasparri, dovrebbe fondarsi su di “un numero adeguato di ore di trasmissioni televisive e radiofoniche dedicate all’educazione, all’informazione, alla formazione, alla promozione culturale, con particolare riguardo alla valorizzazione delle opere teatrali, cinematografiche, televisive, anche in lingua originale, e musicali riconosciute di alto livello artistico o maggiormente innovative” (Art 17, comma 2, lettera b). Bene, partiamo da qui. Proviamo a fare un bilancio di quello che è avvenuto fino ad oggi e come potremmo migliorare il tutto. Annamaria Furlan, segretario confederale Cisl, pur di far fare il salto di qualità all’azienda è perentoria: “per evitare l’evasione del canone la strada più diretta è quella della fiscalizzazione, garantendo il livello adeguato di risorse economiche”. Ma le condizioni che mette per una svolta di tal genere sono diverse: partecipazione pluralista della società civile nella governance; azionariato diffuso, a partire da quello dei lavoratori, per aprire una nuova fase di partecipazione e di democrazia economica nelle scelte aziendali. Soprattutto, salto di qualità nei contenuti, nella qualità del prodotto, nella valorizzazione del patrimonio professionale ed umano di chi lavora in Rai. Una bella scommessa.
di Elia Fiorillo