Chi ciurla nel manico
Riflessioni sul primo turno delle amministrative e sulle prospettive dei ballottaggi. I grandi partiti ora promettono ”rivoluzioni” Ma per rendere credibile una proposta occorre far vedere al Paese l’approdo finale. Quando i capi carismatici o i sovrani ipotizzano le rivoluzioni, mala tempora currunt. Soprattutto per loro stessi. Vuol dire che si sentono deboli ed hanno bisogno d’inventare qualche diavoleria per rimanere a galla: ”perché tutto cambi, affinché nulla cambi”. Tomasi di Lampedusa insegna. A me sembra che la stessa cosa stia capitando ai partiti italiani, alcuni dei quali per ritrovare credibilità nell’opinione pubblica provano a trasformarsi. A scomporsi per ricomporsi in nuovi raggruppamenti. Niente di male. Anzi, cosa utilissima se l’operazione serve a semplificare per rafforzare. Nel senso che si prova a conglobare tutti quelli che la pensano allo stesso modo per contare di più in politica. Per far passare posizioni, idee che hanno la stessa matrice culturale e di pensiero. Se invece l’azione di cambiamento serve strumentalmente a far obliare nell’opinione pubblica i tanti peccati che i partiti hanno commesso, allora non ci siamo.
La batosta elettorale subita dai grandi partiti, sia pur in una competizione amministrativa, la dice lunga sul rapporto tra la politica e la gente. E, per favore, lasciamo perdere il termine “antipolitica”. Partiamo da un assunto importante. La gente, al di là della complessità delle problematiche in campo, ha un fiuto incredibile nel capire chi vuol “ciurlare nel manico”. E’ disposta a far sacrifici se però riesce a vedere “l’approdo finale”; anche solo un abbozzo. Non è un caso che i consensi al governo Monti, nella sua prima fase d’azione, erano considerevoli. E non è vero, a mio avviso, che quella considerazione poteva essere ascritta ad un senso d’insopportazione verso la politica. Penso sia proprio l’incontrario. E, cioè, che c’è nell’opinione pubblica un bisogno di politica nell’accezione letterale del termine:“di governo della città”. Insomma, di regole precise ed uguali per tutti – soprattutto rispettate da tutti – per far andare avanti il Paese.
Dopo la riforma delle pensioni, che ha toccato gli interessi dei più, certo dei ceti meno forti, bisognava poi essere conseguenti. Insomma, non si può con decreto cancellare diritti cosiddetti acquisiti e non avere la stessa determinazione di fronte allo scandalo dei rimborsi elettorali, leggi finanziamento pubblico ai partiti, abolito con un referendum popolare. Ne si può continuare a parlare di riforme necessarie ed improcrastinabili nella pubblica amministrazione, negli assetti istituzionali, negli enti pubblici senza che poi si sia conseguenti, magari con la stessa determinazione dimostrata per le pensioni e per l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Da queste incongruenze scatta nel popolo il corto circuito interpretato come rifiuto della politica.
Sia nelle nuove ipotizzate aggregazioni dei partiti, sia nell’”usato sicuro”, per parafrasare Pier Luigi Bersani, c’è bisogno di segnali non equivoci da dare agli elettori. L’imbroglio del finanziamento pubblico ai partiti deve essere immediatamente sanato. Che sia un vero rimborso elettorale, trasparente sotto tutti i punti di vista, e soprattutto equo. Eppoi non servono commissioni di controllo sui bilanci dei partiti con componenti super blasonati, che possono far pensare a mediazioni ad alti livelli per nascondere chissà che cosa. Basta una sezione della Corte dei conti che faccia il lavoro di vigilanza, ampiamente pubblicizzato. Al di là della riforma dell’articolo 49 della Costituzione, i segretari dei partiti da subito, per essere credibili, dovrebbero darsi un codice etico. Con un j’accuse preliminare, liberatorio, di tutte le cose sbagliate commesse in questi anni. A partire, ad esempio, dal “non vedere” le palesi, in certi casi, commistioni tra malaffare e politica, utilizzando a sproposito la “presunzione d’innocenza” come una clava che andava a colpire – ed uccidere politicamente – gli onesti che sollevavano problemi di moralità. Ma, anche, ammettere strumentalizzazioni nei confronti della magistratura a fini d’interesse di parte.
Non per ultimo, tra le tante cose da fare, c’è il dilemma del rinnovamento delle classi dirigenti. Due, massimo tre mandati a tutti i livelli della politica, dal Parlamento alle cariche nei partiti. Forse, in questo modo, come dice Giorgio Napolitano, l’opinione pubblica non volterebbe più le spalle alla politica e lascerebbe a casa i demagoghi opportunisti, anche loro eterni e senza mandati a scadenza, perché capirebbe che qualcosa sta cambiando: “per estirpare il marcio dai partiti”.
Elia Fiorillo