Cosa indosseremo questo autunno
Essere alla moda è possibile,per diventare trendy ci vuole molta creatività è l’unico modo in cui Karl Lagerfeld (che pesa ormai come una modella) può subirne le tentazioni. Il nuovo realismo parte da qui, dal Grand Palais vestito Chanel per presentare la collezione autunno inverno 2014 che sancisce il trend della donna pragmatica, comoda e indipendente (unica eccezione, un’indossatrice dal passo leggero e sguardo deciso, al cui fianco arrancava un uomo-facchino, appesantito dalle borse degli acquisti) dai dettagli ad hoc:sneakers colorate e nessuna traccia di tacchi; clutch a forma di confezione portauova: sacchetti per lo shopping ma in pelle e perfino carrelli matelassé. Il messaggio è: essere alla moda è possibile anche in spazi comuni, pop, contemporanei. Il quotidiano viene estetizzato, ogni oggetto banale diventa speciale. Il pubblico si è lasciato coinvolgere, forse troppo: molti, persuasi di trovarsi in un vero supermercato, si sono trasformati in taccheggiatori (subito dissuasi dalla security recalcitrante). Poi sono arrivati gli stivali per la pioggia di Miu Miu, le maglie rustiche di Céline, i blazer sportivi di Ralph Lauren, le scarpe ginniche di Stella McCartney, le giacche tecno-sixties di Nicolas Ghesquière per Louis Vuitton. L’operazione realtà ha superato l’operazione verità. E no, non abbiamo smesso di giocare con la moda: abbiamo iniziato a giocare con il reale.
TEMPI DI NEOMINIMALISMO Sarà che dopo gli eccessi da poco trascorsi, le donne sentono il bisogno di riportare i piedi, se non proprio a terra, certamente in scarpe più basse e in abiti più comodi. È l’ipotesi di Miuccia Prada, la quale a ogni sfilata produce un immaginario dogmatico: «Non mi piace fare il salto dalla mia moda all’attualità in maniera didascalica, però trovo che questo sia il momento di uno stile meno urlato. In questi tempi, in ogni ambito, non c’è affatto da scherzare. Anzi, la serietà è d’obbligo». Prada nelle ultime collezioni punta al classico, e quindi a qualcosa che perduri, una sorta di monumentalizzazione della moda. Un tentativo letto dall’Independent come una noia intenzionale: «C’è qualcosa di interessante nell’esser noiosi e nei vestiti irrilevanti». Tutti gli abiti d’alta qualità che durano più di sei mesi posseggono la condizione minima d’esistenza per ambire al classico, senza dover far capolino nei cesti del dismesso e del vecchio. Categorie, queste ultime, che invece piacciono molto a certi giovani artisti e alternativi che ne hanno fatto una dichiarazione politico-estetica e che hanno ripescato tutto l’appena passato o, ancor meglio, il già vecchio sotto l’etichetta del “Normcore”. Che cos’è?
NORMAL IS SPECIAL È il vestirsi normale, secondo uno stile intenzionalmente anodino. Un atteggiamento che era già nell’aria dei distretti di Brooklyn prima che se ne interessasse il fashion system, seppure in forme ancora embrionali e di nicchia, ma sufficienti a farsi rilevare dai team giusti di coolhunter. L’ambizione? Essere come tutti. L’obiettivo? Perdersi nell’individualità liquida e depersonalizzata tra la folla di un Walmart o di un McDonald’s. Pensandoci, è quello che fanno tre tipi di persone che vivono di immagine: modelle, divi di Hollywood e designer di moda. Siamo abituati a vedere stilisti uscire in passerella come fossero gattari, star che vanno al Kentucky Fried Chicken in jeans, t-shirt e cappellino, top model in pigiama attraversare Milano, sicure di rendersi anonime, stanche di reggere sguardi (e lontane dal bisogno di affermarsi con un il taglio di una giacca, ché tanto han le gambe per farsi notare).
Ecco i tre ipotetici promotori della studiata normalità normcore che è così sicura di sé da non temere di esser confusa con la sciatteria. Dopo anni di rincorsa all’eccentricità la cosa più rivoluzionaria è forse l’impersonalità? Nascondersi facendo parte del gruppo indistinto? Quindi, siccome siamo negli Stati Uniti, e siccome parliamo di mode nate dal basso, ci si ispira all’immaginario del turista americano vestito Walmart o Gap, con ai piedi sandali con le calze, ciabatte dell’Adidas, sneakers New-balance M990 che avevamo visto solo a tedeschi in vacanza a Riccione; felpe di pile, t-shirt della Coca Cola o della Disney, come dodicenni. Vestirsi male intenzionalmente e con ironia. Uno stile diffuso tramite hashtag su Tumblr e Instagram, e che come modelli di riferimento ha Jerry Seinfeld, Friends, Steve Jobs (le cui maglie a collo alto erano di Issey Miyake, non certo frutto di incuria) e il cast di Beverly Hills 90210, cioè idoli anni Novanta. Attenzione però, essere normali o reali non significa necessariamente essere inconsapevolmente sciatti. Ne è prova il servizio di Craig McDean sul mensile americano W, dal titolo più che suggestivo: Banal Plus. Protagoniste, ragazze-manichino con scarpe pesanti (le “creeper”) e maglioni lunghi e larghi.
NOSTALGIA NON CANAGLIA. Il ciclo della moda sembra essere: giovani squattrinati ma ricchi di idee pescano dai mercatini vintage abiti rappresentativi di un’epoca, ma che non ce l’hanno fatta ad esser classici, e li riassemblano. Successivamente si fotografano e si offrono a un pubblico like dipendente e bisognoso di (web)star con gli abiti griffati e riabilitati. Infine, un team di professionisti per conto di Lagerfeld o Céline coglie la novità e la rielabora nei codici della moda, facendola rinascere, come accadeva ai mods, ai rocker, ai punk. Perché il paradosso è questo: ci appassioniamo a tal punto a qualcosa, qualcosa che rappresenta un mondo, però il tempo della moda è effimero per definizione. Il riuso è lì per accontentarci tra nostalgia e novità. O per illuderci di rivivere lo stesso momento in modi nuovi. C’è infine il discorso nostalgia, o retromania per usare un termine del critico Simon Reynold. I novanta sono diventati anni nostalgici perché quelli che ci sono cresciuti sono diventati adulti e oggi iniziano a rinfacciarselo. Dopo vent’anni stiamo rielaborando quel periodo, e il normcore è qui per sottolinearlo. In True Detective, serie televisiva culto di quest’anno, il passato tramite flashback era localizzato lì e non più negli Ottanta o Settanta. Shock. I Novanta, quelli di Friends, X-Files, dei film con George Clooney, Julia Roberts e Winona Ryder, dei walkman scarichi e di Snakesul Nokia, del Nintendo e degli hamburger («Il tempo della merce», diceva Karl Marx) sono finalmente lontani da poter essere ricordati e poi accantonati, quindi ripescati, immaginati e infine, forse, dimenticati. L’importante è non smettere di giocare. O si finisce davvero per essere noiosi.