Giancarlo Siani, il “Fortapàsc” della solitudine
Lo stato d’animo è di amarezza, di profondo dolore. Provo queste sensazioni dopo aver visto il film di Marco Risi, ”Fortapàsc”. La pellicola ha risvegliato vecchi ricordi. Mi rivedo con Giancarlo Siani, all’inizio della sua esperienza giornalistica torrese, mentre gli presento Salvatore Capasso, allora sindaco della città, eppoi altri ”contatti” che gli potevano tornare utili per il suo lavoro di cronista.
Sapendo che io ero di Torre Annunziata, Giancarlo, con il suo fare signorile e quasi timido, mi aveva chiesto se gli potevo presentare gente che lo avesse potuto aiutare nelle sue corrispondenze da Torre Annunziata. Ricordo ancora la contentezza che esprimeva il suo volto quando mi annunciò che avrebbe lavorato alla redazione del Mattino di Castellammare di Stabia.
C’eravamo conosciuti in Cisl alla fine degli anni settanta. Lui scriveva per alcuni giornali minori di cui anch’io ero collaboratore. Era uno spirito libero, non conformista, sempre alla ricerca del nuovo. Ricordo che partecipò a qualche corso di formazione sindacale organizzato dalla Cisl Campania a Vico Equense, all’Hotel Aequa. Tra l’altro, a quei tempi, per la Cisl mi occupavo di formazione sindacale. Giancarlo era attento, partecipe, sempre con la voglia di capire, di approfondire. Credo che proprio all’Hotel Aequa abbia conosciuto la sua biondissima Daniela, figlia della proprietaria dell’albergo. Quando Camillo Izzo, allora segretario del sindacato edili di Napoli, mi chiese un nominativo di un giornalista a cui affidare l’ufficio stampa della categoria mi venne subito in mente il nome di Siani, eppure di colleghi da proporre ne avevo diversi. Apprezzavo in lui la sua profonda educazione che lo portava, per esempio, ad attendere fuori dalla mia stanza mentre parlavo al telefono, anche quando con un cenno l’invitavo ad entrare. Ma soprattutto il suo modo di scrivere, di raccontare e la sua serietà professionale. Era un signore nell’accezione più piena del termine.
Vederlo sullo schermo così ben rappresentato da Libero De Rienzo, eroe suo malgrado, mi scatena stati d’animo diversi. La cosa però che più mi colpisce è la solitudine con cui ha portato avanti il suo lavoro. Non perché fosse un solitario, anzi. Perché la struttura sociale in certe realtà del Mezzogiorno è talmente sfilacciata, talmente disgregata che è difficile, direi quasi impossibile, anche su temi nobili come la lotta alla camorra, fare squadra. Ci si perde in individualismi, in velleitarismi ed a volte in protagonismi fuorvianti. Eppure Giancarlo era inserito in un giornale importante come il Mattino di Napoli, nel sindacato, collaborava con la Fondazione Colasanto e con l’Osservatorio sulla Camorra, il cui direttore allora era il sociologo Amato Lamberti. Tutto questo non è bastato a non farlo condannare a morte. Perché hai voglia a denunciare certi fenomeni malavitosi, se lo Stato non t’aiuta a combatterli, se la democrazia è inceppata, se chi è al vertice delle istituzioni nicchia per non scontentare una parte dei grandi elettori, se la gente che si dice per bene non ha il coraggio di dire da che parte sta, non riesci a vincere, rimani solo nel mirino delle mafie che vuoi combattere.
Non so se Siani conoscesse l’aforisma di Benedetto Croce sui giornalisti: ”Ogni mattina un buon giornalista deve dare un dispiacere a qualcuno”. Certo lo praticava, a differenza di tanti colleghi pronti ad auto censurarsi per ”non dare un dispiacere a qualcuno”.
Se dovessi sostenere che Giancarlo era un giornalista d’assalto direi una grande stupidaggine come, per altro, il film di Risi ha ben evidenziato. Siani era un giornalista abusivo, per capirci uno sfruttato, che con pacatezza faceva il suo mestiere: stava sulla notizia, la verificava con puntigliosità come un reporter dovrebbe sempre fare, non s’accontentava dei comunicati stampa o delle dichiarazioni ufficiali. Soprattutto amava il suo mestiere. Non era, per capirci, un ”giornalista impiegato”.
Il torto più grosso che si poteva fare ad una persona così era di associare la sua morte a fatti miserevoli di donne o di omosessualità, come se non potesse un ”abusivo”, un giovane ed inesperto giornalista, dare fastidio ai calibri da novanta della camorra.
Troppi anni, dodici, e due pentiti ci sono voluti per avere una verità giudiziaria che fa acqua. Perché tanti mesi dalla ”condanna a morte” all’esecuzione? Perché gli scritti di Giancarlo sull’inchiesta che stava svolgendo sui fondi del terremoto dell’80 non si sono trovati? Perché si è voluto insistere a senso unico su Giorgio Rubolino, presunto killer di Siani, tenendolo in carcere mesi, quando anche il più sprovveduto, conoscendolo, lo avrebbe certo considerato un millantatore, un fanfarone dalla viva e fertile intelligenza, ma non uno spietato e sanguinario giustiziere?
Marco Risi ha provato a dare una spiegazione all’omicidio Siani. Speriamo che qualche cronista, magari abusivo, della tempra e serenità di Gianfranco possa fare meglio: riuscire a dare una risposta ai tanti interrogativi che restano ancora.
Elia Fiorillo