La Donna Coraggio che viene da Kabul si chiama Laila Haidari
Dietro un paio di lenti rettangolari che le donano un’aria severa da professoressa mostra uno sguardo fiero. Lo sguardo di chi sa di aver sconfinato in un terreno scivoloso, ma con la consapevolezza di essere nel giusto.
Laila, nata e vissuta in Iran, è arrivata nella capitale afghana neppure un anno fa per partecipare a un festival cinematografico, decisa a lasciarsi alle spalle il suo passato di sposa e madre bambina (a 13 anni aveva già un figlio) per seguire una carriera da regista di documentari. Le è bastato capitare per caso vicino al ponte Pul-i-Sokhta, che passa sopra il fiume di Kabul, per capire che la sua vita avrebbe bruscamente deviato direzione.
Seminascosti sulle sponde del corso d’acqua, decine di tossicodipendenti trascorrono le giornate tra una dose e l’altra, ammalati, denutriti, per finire quasi sempre stroncati da un’overdose o da una notte troppo fredda. “Non potevo abbassare lo sguardo e tirare dritto, dovevo fare qualcosa”, spiega la donna all’Afp. Nel giro di un mese dà vita all’associazione umanitaria “Life is beautiful” e apre la casa di accoglienza “Mother Camp” alla periferia Ovest di Kabul, dove trovano rifugio fino a venti tossicodipendenti a notte.
In un paese che da solo produce il 90% dell’oppio esistente al mondo, la dipendenza da stupefacenti – che trova humus fertile nella povertà dilagante – è una piaga di dimensioni drammatiche. L’ultimo report delle Nazioni Unite parla di oltre un milione e mezzo di consumatori abituali. Nella terra dei burqa e dell’integralismo islamico, dilaniata da decenni di conflitti, lo sviluppo della medicina è sempre stato osteggiato, così oggi le possibilità di ottenere delle cure efficaci sono prossime allo zero.
Grazie alla sua perseveranza, in pochi mesi Laila è riuscita ad aiutare circa 300 ragazzi.A decine ogni giorno bussano alla sua porta. “Ho deciso di chiudere con la droga per il bene dei miei figli. Non voglio che subiscano le conseguenze del mio passato autodistruttivo”, dice Jan, la testa coperta da un foulard giallo e arancione. Ma per Laila non è abbastanza. Non si accontenta di trascinare queste persone fuori dal tunnel, vuole aiutarle a ricostruirsi una vita. Con 26 mila dollari racimolati grazie a prestiti di amici e conoscenti ha aperto il ristorante “Taj Begum”. “I ragazzi che lavorano con me sono tutti ex tossicodipendenti – precisa -. Qui hanno la possibilità di imparare un mestiere, rendersi utili e distrarsi dalla tentazione più forte”. Nel locale, che propone specialità afghane, iraniane e turche, hanno trovato impiego 17 ragazzi, compreso il musicista folk Abdul Ali, tossicodipendente da oppiacei per oltre dieci anni. “Suono mentre i miei colleghi sono impegnati tra la cucina e il servizio ai tavoli. Così mentre lavorano ascoltano buona musica e si divertono”.
“Quello che faccio non è facile – ammette Laila – soprattutto perché essere una donna qui è più complicato che altrove. C’è chi mi ha accusata di prostituirmi con i ragazzi della comunità e mesi fa sono stata vittima di un tentato omicidio. Ma la cosa che mi spaventa di più – sorride – è il timore di non riuscire a restituire tutti i soldi che mi hanno prestato per il ristorante”. Poi si fa seria. “Ho 34 anni e anche chi è più grande di me ha iniziato a chiamarmi “mamma”. Per loro rappresento un rifugio sicuro e l’alternativa a un destino segnato. Certo, è una grossa responsabilità. Ma che cosa c’è di più bello al mondo?”
di Redazione