La poesia nel contesto lavorativo
Il poeta tedesco Bertold Brecht affrontò le tematiche derivanti dal riscatto delle masse lavoratrici
meno abbienti e meno istruite anche nei libri di storia.
La poesia che rispecchiò maggiormente questa problematica “Domande di un lettore operaio”.
Della città di Trieste egli si chiedeva chi mai l’avesse potuta costruire, visto che nei libri di storiasi elencavano tutti i re
che l’avevano governata, ma non ci si soffermava sul fatto che
la città era stata costruita con dei blocchi di pietra, sicuramente trascinati non da figure autorevoli
ma dalla manovalanza. Anche la città di Babilonia più volte ricostruita non era stata riedificata da
figure illustri. Le conquiste dell’India ad opera di Alessandro, certamente non erano sopraggiunte
solo per il suo merito, uomini semplici avevano dato il loro coraggio e la loro vita. Cesare sconfisse
i Galli, ma echeggiò il suo nome ma non i suoi uomini meno abbienti.
Pablo Neruda in “Canto generale” denunciò lo sfruttamento dei lavoratori dell’America Latina ad
opera di regimi dittatoriali di compagnie commerciali straniere.
Giovanni Pascoli fu uno dei primi a trasmettere i disagi e tutti i pregiudizi dei meridionali dei primi del novecento costretti ad emigrare in America. Una delle sue poesie che toccarono questo argomento si intitolava “Gli orfani del mondo”. Il nostro paese alla fine della seconda guerra mondiale era dedito prevalentemente all’agricoltura, ma alla fine degli anni cinquanta iniziò l’industrializzazione che spinse molti uomini dell’Italia meridionale ad emigrare verso l’Italia settentrionale dove si concentrarono molte industrie. Vennero create banche, scuole, servizi sanitari, servizi di trasporto. Negli anni ottanta si arrivò al 55% di forze lavorative utili. Molti poeti raccontarono queste realtà, tra questi il poeta Vittorio Bodini in “Come farò dopo morto? I denti li ho tutti”, Franco Santamaria in “Da anni” ci parlava di mestieri scomparsi. Alfonso Gatto in “ A un guitto di potere” descriveva nuove figure impiegatizie.
Quel che non voglio essere
Non voglio essere un sentimento mite,
ma l’uragano che scuote e fa tempesta.
Non voglio essere l’abitudine
di essermi guardata intorno,
per poi sui miei lidi ripiegare.
Non voglio essere un’amica fidata,
ma la tua amante fidata.
Non voglio essere una formica calpestata,
ma il leone che ruggisce nella foresta
e che non prende solo gli avanzi di quel che resta.
Non voglio essere solo un ricordo bello,
ma una realtà seppure amara.
Non voglio essere solo una carezza,
che si da solo per tenerezza.
Voglio essere quella passione,
quel caldo vento dell’estate
quelle forti mareggiate
quelle grandi passeggiate
con tutti i percorsi dell’amore.
(Luisa de franchis)