LA SINDROME DI BECKWITH – WIEDEMANN
Uno studio, finanziato da Telethon e pubblicato su Molecular Cell da Andrea Riccio della Seconda Università di Napoli e associato al Cnr, ha messo luce su alcuni meccanismi alla base dell’imprinting genetico, in particolare il fenomeno che “spegne” l’espressione di geni. Il meccanismo, se difettoso, può provocare malattie come la sindrome di Beckwith-Wiedemann.
La sindrome di Beckwith-Wiedemann è dovuta a un’aumentata sintesi di alcune proteine, che si traduce in un’eccessiva tendenza alla crescita, non solo in termini di statura, ma anche di molti organi interni, dalla lingua all’intestino. L’aspetto più pericoloso, però, è l’aumento del rischio di sviluppare tumori in età pediatrica, soprattutto nei primi dieci anni di vita.
Riccio e collaboratori hanno dimostrato che a provocare l’aumento della sintesi proteica in questa malattia potrebbe essere il mancato funzionamento di uno specifico complesso proteico, chiamato ZFP57/KAP1. «La maggior parte delle malattie genetiche è dovuta a un errore nel Dna che si traduce nell’assenza o nell’anomalia di una particolare proteina – spiega Riccio. – Altre patologie, invece, sono dovute a un difetto nell’imprinting genetico. Nelle primissime fasi dello sviluppo, fatta eccezione per i cromosomi sessuali X e Y, si ricevono due copie di ciascun gene da ognuno dei genitori. Per dosarne l’espressione, l’organismo procede a “spegnerne” uno dei due, secondo regole precise (in certi casi tocca a quello di origine paterna e viceversa): se però questo “interruttore” si sbaglia ecco che un gene può essere espresso troppo o troppo poco». A conferma di questo esiste infatti una sindrome speculare alla Beckwith-Wiedemann, quella di Silver-Russel, dove l’interruttore funziona troppo, alcune proteine non vengono prodotte e i sintomi sono nanismo e, più in generale, ritardo nello sviluppo.
«Nel modello animale abbiamo dimostrato che ZFP57/KAP1, legandosi al Dna in corrispondenza di una specifica sequenza, permette di reclutare quegli enzimi necessari per spegnere l’attività dei geni grazie a modificazioni chimiche come l’aggiunta di gruppi metilici» spiega Paolo Pedone, professore della Seconda Università di Napoli che ha preso parte allo studio. «Il nostro lavoro suggerisce che la sindrome può dipendere da errori in queste sequenze di Dna o nelle proteine che vi si legano. Infatti, quando nella cellula mancano ZFP57 o KAP1, i geni normalmente soggetti a imprinting non sono più controllati e subiscono un’alterazione dell’espressione».
«Inoltre – continua Riccio – se questo meccanismo dovesse confermarsi anche nell’uomo potremmo avere a disposizione un ottimo bersaglio farmacologico da sfruttare in un’eventuale terapia per la sindrome di Beckwith-Wiedemann».
A cura di Valeria Sorrentino.