Quando la dignità d’una donna viene violata due volte, dalla barbarie umana e dalla magistratura
Come si fa ad avere fiducia nella giustizia e a invitare le donne, vittime di violenza, a denunciare i propri aguzzini, quando non meritano neppure la certezza della pena? Fa indignare, e tanto, la decisione del gip Giuseppe Romano Gargarella di concedere i domiciliari al ventenne Francesco Tuccia, ex militare di Montefredane, presunto responsabile dello stupro ai danni di una giovane studentessa laziale, avvenuto lo scorso 12 febbraio all’esterno della discoteca Guernica di Pizzoli. Il prossimo 22 ottobre Tuccia dovrà comparire davanti ai magistrati del Tribunale collegiale de L’Aquila, dove sarà sottoposto a processo con la formula del rito immediato. La giovane studentessa ha appreso la notizia della scarcerazione con profonda indignazione, minacciando di andar via dall’Italia, dove non si sente affatto protetta e difesa. Chi potrebbe darle torto? Tradita due volte, la prima da un ragazzo dall’apparente viso angelico, la seconda, più atroce, dalla magistratura e da quella giustizia in cui spera per aggrapparsi a qualcosa e avere la forza di rialzarsi e ricominciare. I segni di quella barbara violenza le resteranno per sempre sul corpo, come le cicatrici del cuore che nessuno potrà mai guarire.
Il giovane militare, trasformatosi in un mostro spregevole, nella gelida notte tra l’11 e il 12 febbraio scorso, ha atrocemente violentato la ragazza, lasciandola giacere al freddo, sulla neve, seminuda, in una pozza di sangue, dopo averle brutalmente perforato l’utero, probabilmente con un oggetto esterno. Se non fosse arrivata la security e i tempestivi soccorsi, la ragazza sarebbe morta dissanguata e non avrebbe potuto raccontare la sua storia. Il Tuccia si è sempre difeso parlando di un “rapporto estremo, ma consenziente”, come se esistesse al mondo una donna desiderosa di farsi seviziare e martoriare. Non c’è stata, dunque, ammissione di colpa, non c’è stata una presa di coscienza, l’assumersi le proprie responsabilità, non sono state proferite scuse o richieste di perdono. Eppure, a questo uomo si concedono i domiciliari, perché si presuppone non ci sia pericolo di reiterazione del reato, di fuga o di inquinamento delle prove. Ma un uomo capace di simili nefandezze, un uomo che agisce così violentemente su un corpo di una donna, merita di attendere comodamente a casa la data del processo e i successivi, lunghi, sviluppi? La giovane donna non avrebbe meritato già ora un minimo di giustizia, sapendo il suo carnefice dietro le sbarre a scontare la follia di quella terribile notte? E se, invece, di un giovane italiano, ex caporale, di buona famiglia, l’aguzzino fosse stato uno straniero o un extracomunitario, avremmo visto maggiore indignazione da parte dei nostri politici? Forse. Forse avremmo avuto una maggiore attenzione a questo caso, una propaganda contro il nemico immigrato e tante sciocche promesse. Invece, il presunto colpevole è italiano e nell’aria non si respira quell’indignazione che in un Paese civile e democratico dovrebbe esserci. Non ci sono proteste, non c’è rumore, quasi si lasciasse la vittima sola al suo destino, senza certezze. Come può questa donna essere d’esempio ad altre vittime, se non puniamo davvero i colpevoli? Ci sono cartelle cliniche, riconoscimento del colpevole e testimoni, eppure, nulla basta a tenere in carcere già ora il Tuccia. Fino al momento della sentenza definitiva è innocente, accettiamo pure che il gip gli dia i domiciliari, ma noi donne e voi uomini dove siete finiti? Perché non gridiamo vergogna di fronte a queste ingiustizie? Perché non ci indigniamo più? Quando ogni giorno in tutto il mondo muoiono donne vittime di ogni tipo di violenza, non possiamo considerare tutto ciò come qualcosa all’ordine del giorno, qualcosa che non è più ingrato di smuovere le nostre coscienza e di farci urlare giustizia, ora, giustizia dalla magistratura, dalle istituzioni che devono difenderci e tutelarci.
Giuseppina Amalia Spampanato