Ruanda, un libro per non dimenticare
Silvana Arbia è stata per otto anni magistrato d’accusa al Tribunale speciale per il Ruanda. Ha deciso di raccontare la sua esperienza intensa e scioccante. Ma non solo.
«Ecco perché ho deciso di scrivere questo libro. Per raccontare i miei quasi nove anni in Africa, dal 1999 al 2008, al servizio del Tribunale penale internazionale per il Ruanda (Tpir) come procuratore. Anni intensi e sconvolgenti, dedicati a perseguire i responsabili degli innumerevoli episodi del genocidio che in soli tre mesi circa, da aprile ai primi di luglio 1994, portò al massacro di quasi un milione di persone. Laggiù non ci sono arrivata per caso, ma per scelta. Dopo anni di magistratura in Italia avevo sentito il fortissimo desiderio di portare il mio contributo alla giustizia internazionale che operava in uno dei paesi più martoriati del mondo».
È un passaggio del libro “Mentre il mondo stava a guardare” (Mondadori). Il libro parla del genocidio ruandese del 1994. Ma l’autrice, Silvana Arbia, non l’ha vissuto da testimone, ma con la toga: per quasi nove anni ha rappresentato l’accusa (in Italia si direbbe in qualità di pubblico ministero e poi di capo della procura) nelle indagini e nei processi del Tribunale, creato a fine 1994, per punire i reati commessi nel piccolo Paese africano nel corso di quei 100 giorni nei quali soldati, miliziani ed estremisti di etnia hutu massacrarono quasi un milione di tutsi e di hutu moderati che non avevano voluto partecipare al genocidio.
Silvana Arbia ha perseguito e fatto condannare molti dei principali criminali che hanno pianificato e messo in atto uno dei più incredibili mattatoi del secolo appena trascorso. Un libro intenso e scioccante, che in realtà è molto di più del racconto di una straordinaria esperienza professionale in una Corte di giustizia internazionale: pagina dopo pagina si snocciola un percorso personale ed esistenziale per capire come un orrore di tali dimensioni possa essere accaduto, e per farne memoria.
«È stato così», scrive Arbia, «che ho guardato negli occhi la crudeltà di assassini spietati e la sofferenza delle loro vittime, ma anche la desolazione e il senso di fallimento di chi si è pentito. Un lavoro duro e difficile, che può ripagare solo con la soddisfazione di poter contribuire a ricostruire una verità a lungo negata».
Il genocidio non è stato una “calamità naturale”, scrive il magistrato, ma una tragedia annunciata. I nove anni passati a ricostruire gli episodi, a scovare le prove, a raccogliere le testimonianze, portano l’autrice a confermare che, senza alcun dubbio, i suoi ideatori l’hanno preparato, programmato e scatenato in ogni angolo del Paese.
«Poteva essere evitato», aggiunge, «ma non si fece nulla. Quello che è successo in Ruanda, purtroppo, potrebbe accadere di nuovo. E questo perché chiunque è mosso solo da sciagurate ambizioni e persegue cinici disegni di potere potrebbe essere tentato di eliminare materialmente e definitivamente altri esseri umani in base all’etnia, alla razza, alla religione o alla nazionalità. Per fortuna, oggi abbiamo a disposizione nuove conoscenze che ci permettono di cogliere i segni premonitori delle pulsioni che spingono al genocidio, facendo retrocedere di secoli la storia dell’umanità. Possiamo intervenire in tempo per evitarlo, ma a condizione che la maggior parte di noi ne sia consapevole».
Questa è l’altra fondamentale ragione che ha mosso il magistrato a raccontare quanto ha visto in Ruanda e sentito nelle aule del Tribunale: non bisogna solo ricordare, ma anche fare in modo che una maggiore consapevolezza impedisca il ripetersi di tali tragedie.
«Se siamo coscienti», scrive, «delle strategie che portano a commettere un genocidio e di quanto gravi possano essere le conseguenze di quest’ultimo per tutti gli esseri umani nessuno escluso, possiamo anche sperare che in futuro il mondo non si limiterà a stare a guardare».
Le pagine di “Mentre il mondo stava a guardare” non provocano soltanto incredulità per la ferocia di chi si è macchiato dei peggiori crimini e per la loro imperturbabilità di fronte alle accuse. Suscitano anche profonda solidarietà e compartecipazione al dramma vissuto da tante vittime innocenti e alla vastità del dolore di chi è sopravvissuto.
Uno dei passi più toccanti riguarda la visita dell’autrice a Murambi, la scuola dove furono barbaramente sterminati 50 mila tutsi. Oggi, quel luogo è un memoriale a ricordo di ciò che è avvenuto. I corpi delle vittime sono ancora là, quasi che la scena del massacro fosse stata congelata per sempre.
Così la descrive Silvana Arbia: «La vista di quell’orrore così imponente e aggressivo rappresenta una delle esperienze più devastanti che ho vissuto. In quelle stanze mi sono sentita strappare via dal mio mondo, lo stesso che era rimasto a guardare senza fare nulla per evitare o, almeno, diminuire la portata di quella tragica caduta dell’umanità. Ma per finire dove? In quel baratro di morte ogni speranza di un futuro sembrava impossibile. Tra quelle stanze non si erano perdute soltanto le centinaia e centinaia di uomini, donne e bambini che vi erano stati uccisi, ma tutti noi. Era un’enorme, spaventosa fossa comune morale da dove era difficile rialzarsi».
«Mi sono sentita nuda e vuota, e per la prima volta completamente inutile. Che cosa avremmo potuto mai fare, ormai, per tutte quelle vittime innocenti?».
Dopo diverse pagine, il magistrato riesce anche a darsi una risposta: «Un gruppo di bambini ci venne incontro. Una ragazzina si staccò dagli altri e mi si avvicinò. Mi prese la mano e iniziò a stringerla forte. Era un’orfana tutsi, superstite del massacro. Nel 1994 tutta la sua famiglia era stata uccisa e lei era rimasta sola. Anche la sua scuola era stata distrutta. Ma lei voleva studiare: voleva tornare a leggere, a imparare. Ciò che l’ossario di Murambi mi aveva strappato, mi venne restituito da quella bambina. La speranza di poter fare qualcosa di utile, il senso della mia presenza laggiù. Giurai a me stessa che avrei fatto tutto quello che potevo per contribuire a darle un futuro più giusto. Il mio era un impegno ineludibile».
Un impegno a cui non è venuta meno: oggi Silvana Arbia è segretario generale della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja. Ha deciso di continuare a perseguire coloro che, in qualunque parte del pianeta, commetta crimini come quelli avvenuti in Ruanda: genocidio, gravi violazioni dei diritti umani, crimini di guerra e contro l’umanità.
«Quello che ho imparato in questi anni», conclude, «è soprattutto che la giustizia non può fare a meno della verità. Solo quest’ultima ricolloca i responsabili dei peggiori crimini e le loro vittime ciascuno al proprio posto e al giusto ruolo, ridando a ognuno di noi un’occasione di riscatto. Il libro che ho scritto vuole essere una sorta di “post-it” per non dimenticare».
Serena Smorra