Still Alice

Arriva nelle sale “Still Alice”, adattamento cinematografico del romanzo Perdersi (Still Alice) scritto nel 2007 dalla neuroscienziata Lisa Genova. Il film scritto e diretto da Richard Glatzer e Wash Westmoreland con protagonista Julianne Moore – candidata per questo cinema 1ruolo agli Oscar 2015 come miglior attrice protagonista – racconta la storia di Alice Howland, che, appena cinquantenne, scopre di essere affetta da una forma presenile di Alzheimer.

E’ il cinquantesimo compleanno di Alice e la donna festeggia con la sua famiglia -quasi al completo- in un ristorante.
Alice Howland è orgogliosa degli obiettivi finora raggiunti: è una linguista di successo tanto da avere una cattedra alla Columbia University e partecipare a seminari in tutto il mondo e ha una solida famiglia composta dal marito chimico John e dai tre figli Anna, Tom e Lydia. La sua vita si svolge frenetica e densa di attività, quando inizia ad avere i primi disturbi. Durante un convegno dimentica una parola che usa frequentemente. Va a correre e, all’improvviso, non sa più dove si trova.
Le viene diagnosticato l’Alzheimer. La sua vita sta cambiando senza che lei possa fare niente.

“Vedi, non è sempre lo stesso…voglio dire, ho dei giorni buoni e dei giorni brutti. Nei miei giorni buoni mi sento, come dire, come una persona normale, in quelli brutti mi sento come se non riuscissi a ritrovare me stessa. Insomma, io mi sono sempre definita in base cinema 2alla mia intelligenza, alla proprietà di linguaggio, alla capacità di argomentare, e adesso certe volte ho la sensazione di vedere le parole che galleggiano davanti a me e non riesco a raggiungerle e così mi perdo, non so chi sono e cosa perderò ancora.”
Una donna forte, ambiziosa, intelligente. Docente di linguistica alla Columbia University. Alice Howland ha dedicato la sua vita ad acculturarsi, a sfruttare il suo cervello il più possibile e, ora, quest’ultimo sta sfuggendo al suo controllo. La cinepresa nascosta dietro il fogliame la segue correre e, sempre da lontano, la vede camminare all’interno di una libreria. Il montaggio ci indica che c’è un muro, un ostacolo insormontabile nella vita di Alice ed è, appunto, la malattia, che la sta allontanando dalla vita, dalla percezione della realtà e dalla sua stessa identità.
Alice non è più Alice. E allora chi è?
La maggior parte del film la viviamo con lei: una lunga soggettiva che ci fa guardare le cose attraverso i suoi occhi, le sue percezioni. Quando si perde nel parco, tutto intorno a lei diventa sfocato e i suoni diventano un mormorio di sottofondo. Avviene una cosa simile quando, a malattia avanzata, i suoi cari parlano di come comportarsi con lei e lei, stesa sul divano, li vede come una massa sfocata, informe. Noi,spettatori, possiamo seguire la vita e le decisioni dei suoi familiari attraverso uno stacco dalla perenne soggettiva su di cinema 3lei. La scelta registica ci permette di seguire ciò che avviene a una persona affetta da tale malattia e, soprattutto, quello che che avviene prima dello stadio finale della malattia. Alice tenta di aggrapparsi alla vita meglio che può: si tiene in esercizio con giochi di memoria, continua a lavorare all’Università, scrive sul cellulare delle domande da porsi più volte al giorno e cerca di organizzare persino un suicidio da attuare nel momento in cui la sua mente non riuscirà più a ricordare le nozioni basilari della sua vita.
Nell’ultimo discorso che Alice, già malata, riesce a tenere davanti a un pubblico, sottolinea la sua disperata voglia di rimanere se stessa, di non perdersi. Il senso di perdita sembra, infatti, pervadere tutto indifferentemente: i ricordi, la realtà, la percezione che i suoi cari hanno di lei. Vediamo la sua vergogna, il suo imbarazzo. Se ha bisogno di aiuto, preferisce ricorrere alla tecnologia che chiedere una mano ai suoi familiari. Per una donna che ha sempre avuto il controllo, che è stata sempre un pilastro per le persone che le stanno intorno questa malattia è un’umiliazione, un abisso che la risucchia sempre più in basso.
E per le persone che le sono intorno è difficile comprendere il suo stato, perché per loro la vita sta continuando a scorrere normalmente, a loro non viene rubato niente. Inizialmente, il marito non riesce ad accettare quanto sta capitando e vorrebbe che la loro vita non risentisse di questa situazione. In seguito, si rivela incapace di prendersi cura di lei. Alice vorrebbe che lui si prendesse un anno sabbatico per sfruttare il tempo ancora a loro disposizione e lui tentenna, prende tempo ma, infine, si allontana. La figlia cinema 4Lydia, (Kristen Stewart) che ha sempre avuto un rapporto di conflitto con la madre, è l’unica che si sforza di capire veramente come la madre si sente e decide di restarle accanto. Nella parte finale, infatti, la soggettiva si sposta da Alice a Lydia, che cerca di tenere allenata la mente della madre e di non trattarla come un’ameba. Alice, seppur chiusa in un suo mondo interiore, è riuscita a non perdere tutto, infatti il film si chiude con un ricordo che è riuscita a trattenere: l’immagine della madre e della sorellina, che aveva perso molti anni prima.
Sicuramente decisiva nella riuscita di un film di questo genere l’interpretazione della protagonista. E Julienne Moore riesce a farlo funzionare descrivendo quello che accade realmente nella vita di una persona affetta da tale morbo senza inutili patetismi, anzi commuovendo nel profondo lo spettatore proprio per quanto la sua interpretazione sà di vero.
La cinepresa, al tempo stesso, anche se non indugia sul dramma nemmeno si allontana dagli elementi più concreti, anzi li mostra pragmaticamente, in maniera dignitosa come quando Alice dimentica dove sia il bagno oppure quando fissa la tv spenta rivedendo nella sua mente i ricordi di quando era bambina.

A cura di Mariaconcetta Pentangelo