Una stanza tutta per sé
“Tuttavia, quando leggo di una strega gettata nel fiume, di una donna posseduta dai diavoli, di una levatrice esperta di erbe, o perfino dell’esistenza di una madre di qualche uomo notevole, penso che siamo sulle tracce di un romanziere perduto, di un poeta costretto al silenzio, di qualche muta e ingloriosa Jane Austen, di qualche Emily Brontë che si sarà fracassata il cervello fra le brughiere, oppure avrà vagato gemendo per le strade, resa pazza dalla tortura inflittale dal proprio talento.”
Nel saggio “Una stanza tutta per sé” -in lingua originale “A Room of One’s Own”- pubblicato nel 1929, l’autrice Virginia Woolf interviene in maniera lucida e problematica sul tema “donne e romanzo” facendo del suo trattato un’imprescindibile capostipite dei manifesti femminili del Novecento europeo. La Wolf ci rende partecipi del suo pensiero, fin dall’inizio del suo trattato, spiegando passo dopo passo i suoi precessi mentali e coinvolgendo il lettore in un’analisi accurata della condizione femminile. Ammette di non essere riuscita a trovare “un nocciolo di verità pura”, ma di poter dare soltanto delle opinioni sulla questione e, in ultimo, di essere giunta alla convinzione che la donna abbia bisogno di soldi e di una stanza tutta per sé -da qui il titolo del saggio- se vuole occuparsi di romanzi. Il saggio ripercorre la storia letteraria della donna. Non abbiamo grandi notizie di donne romanziere per molti secoli, se non attraverso le opere di autori maschi che ne fecero, spesso, il centro dei loro universi romanzeschi. Possibile che durante un periodo così florido come il Rinascimento inglese nessuna donna abbia avuto un genio pari a quello di Shakespeare? E in quali condizioni vivevano le donne? La vita è imprescindibile dal lavoro creativo, “come una ragnatela”, quindi il modus vivendi influenza di conseguenza il modus operandi. Nella realtà sociale dell’epoca, in effetti, la donna sottostava ad una rigida mentalità patriarcale e, seppure provvista di talento, non aveva modo di sfruttarlo, anzi il suo talento diventava una condanna proprio perché fine a se stesso. L’autrice immagina una sorella di Shakespeare incredibilmente dotata e con la stessa attrazione per il teatro del fratello, solo con un destino a lei totalmente avverso, anche provando a forzarlo. “Chi può misurare il fervore e la violenza del cuore di un poeta quando si trova prigioniero e intrappolato in un corpo di donna?”.
La novità del trattato della Woolf sta nell’affrontare, da donna, il problema della condizione femminile sentendolo, ovviamente, come proprio, conoscendo in prima persona i sogni, le ambizioni e le debolezze di una donna ma, al tempo stesso, senza innescare, indirettamente o direttamente, rabbia verso il sesso maschile. “ Per tutti questi secoli le donne hanno avuto la funzione di specchi, dal potere magico e delizioso di riflettere raddoppiata la figura dell’uomo”, dice la Woolf, e continua così “Non ho bisogno di odiare nessun uomo; non può ferirmi. Non ho bisogno di lusingare nessun uomo: non ha nulla da darmi. [..] E’ assurdo biasimare una classe o un sesso nell’insieme. Un corpo sociale non è mai responsabile di quello che fa. E’ guidato da istinti che non controlla. Anche loro, i patriarchi, i professori, dovevano lottare con infinite difficoltà, con terribili remore.” Le donne, ridotte al silenzio e all’obbedienza, hanno incentivato per secoli la fiducia in se stessi degli uomini, che hanno fatto del predominio sull’altro sesso un motivo di orgoglio e la ragione stessa per cui dovessero sentirsi imbattibili e in dovere di esercitare il potere in tutte le sue forme. Questa rabbia si è trascinata di secolo in secolo, come qualsiasi abitudine sociale che è talmente calata nel tessuto culturale da venir assimilata senza essere messa in discussione. Quante volte accade anche a noi di accettare delle cose semplicemente perché sono così da sempre e tutti fanno così? Eppure, non è con il rancore che le donne devono riprendersi quello che è loro di diritto, come la possibilità di essere ammesse alla cultura, e nemmeno rinunciando alla loro femminilità, imitando pedissequamente tutto quello che fanno gli uomini. Questo il pensiero di Virginia Woolf. Il che ci rimanda ad altre parole, più recenti, pronunciate dall’attrice Emma Watson dinanzi alle Nazioni Unite il 20 settembre 2014: “Più ho parlato di femminismo, più ho capito che lottare per i diritti delle donne è troppo spesso diventato sinonimo di “odiare gli uomini.[..] Nessun Paese del mondo può dire di aver raggiunto la parità di genere. [..] Uomini, vorrei sfruttare questa opportunità per farvi un invito formale. La parità di genere è anche un vostro problema. Non parliamo spesso di uomini imprigionati dagli stereotipi di genere ma io vedo che lo sono, e che quando ne sono liberi, le cose cambiano di conseguenza anche per le donne. Se gli uomini non devono essere aggressivi per essere accettati, le donne non si sentiranno spinte a essere arrendevoli. Se gli uomini non devono avere il controllo, le donne non saranno controllate.”
A quasi un secolo di distanza, ci si ritrova ad argomentare sullo stesso tema avendo raggiunto dei progressi fortunatamente notevoli, tuttavia affrontando il problema da una prospettiva purtroppo simile al passato. L’appello della Watson è, appunto, quello di porsi di fronte al femminismo considerando le varie sfumature della questione e le diverse parti in causa, cioè gli uomini quanto le donne, altrimenti risulta impossibile raggiungere la tanto agognata parità dei sessi.
A cura di Mariaconcetta Pentangelo